DIFFIDA TAMPONE O MASCHERINA PAZIENTI (VISITATORI/ACCOMPAGNATORI)
Cita da Alessandra Ghisla su 6 Novembre 2024, 2:24Alla CA Direzione Aziendale xxxx
Direttore dott. Xxxxx
Direzione Sanitaria xxx
Direttore dott. Xxxxx
PEC: xxxxxxxxxxx
Ministero della Salute
Ministro Orazio Schillaci
Email/PEC: seggen@postacert.sanita.it
Ufficio Legislativo Ministero della Salute
Capo e Vice Capo Dott. Vampa Rocco
Email: segr.legislativo@sanita.it
OGGETTO: DIFFIDA IMPOSIZIONE MASCHERINA FFP2 E/O TAMPONE NON DIAGNOSTICO COVID-19
Il/La sottoscritt xxxx xxxx, nat il 29/01/1900 a xxx (xx), residente a xxxxxxx (xx), in via xxxxx nr.00, CF. xxxxxxxxxx intende esercitare il proprio diritto e formula la presente diffida per significare quanto segue:
Per noi la procedura corretta e formale è PEC/Raccomandata ma nessuno vi vieta di usare la Email oppure la PEC di altri perchè quello importante è il protocollo d’ufficio e non il modo di invio. Basta iniziare l’istanza con:
In base all’Articolo 45 - D.Lgs. 82/2005 (Codice dell'Amministrazione Digitale) – dove vien detto che: “1. I documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o informatico, idoneo ad accertarne la provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale”, il/la sottoscritt xxxx xxxx, nat il 00/00/1900 a xxxxx (XX), residente a xxxxxx (XX), in via xxxxx nr.0, CF. ABCDEF00C00C123A intende esercitare il proprio diritto nell’utilizzare qualsiasi mezzo telematico come la PEC di xxxxx oppure la mia Email e formula la presente diffida per significare quanto segue:
(In data 00/00/2024 mi sono recato presso la struttura… raccontate in breve la vostra esperienza negativa con imposizione tampone/mascherina)
PREMESSO CHE
In data 27 dicembre 2023 è stata emessa un’ordinanza del Ministero della Salute (GU n. 302 del 29-12-2023) con titolo: “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’epidemia da COVID-19 concernenti l’utilizzo dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie” dove vengono prorogate fino al 30 giugno 2024 le disposizioni della precedente ordinanza del ministero della Salute del 28 aprile 2023 (GU n. 100 del 29-04-2023) con titolo: “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'epidemia da COVID-19 concernenti l'utilizzo dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie” dove, all’art. 1 possiamo leggere: “Art. 1 comma 1. Per le motivazioni in premessa, E’ FATTO OBBLIGO di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie ai lavoratori, agli utenti e ai visitatori delle strutture sanitarie all'interno dei reparti che ospitano pazienti fragili, anziani o immunodepressi, specialmente se ad alta intensità di cura, identificati dalle direzioni sanitarie delle strutture sanitarie stesse. L'obbligo è esteso ai lavoratori, agli utenti e ai visitatori delle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali, comprese le strutture di ospitalità e lungodegenza, le residenze sanitarie assistenziali, gli hospice, le strutture riabilitative, le strutture residenziali per anziani, anche non autosufficienti, e comunque le strutture residenziali di cui all'art. 44 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 gennaio 2017[…]Comma 2. Nei reparti delle strutture sanitarie diversi da quelli indicati al comma 1 e nelle sale di attesa, la decisione sull'utilizzo di dispositivi di protezione delle vie respiratorie da parte di operatori sanitari e visitatori resta alla discrezione delle direzioni sanitarie, che possono disporne l'uso anche per tutti coloro che presentino sintomatologia respiratoria.” Mentre sempre all’art. 1 dell’ordinanza ministeriale del 28 aprile 2023 troviamo: “5. La decisione sull'esecuzione di tampone diagnostico per infezione da SARS-CoV-2 per l'accesso ai Pronto soccorso è rimessa alla discrezione delle direzioni sanitarie e delle autorità regionali. Si rammenta infatti che non sussiste obbligo a livello normativo dal 31 ottobre 2022, in quanto l'art. 2-bis «Misure concernenti gli accessi nelle strutture sanitarie e socio-sanitarie» del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52, come modificato dall'art. 4, comma 1 lettera b) del decreto-legge 23 luglio 2021, n. 105, decreto-legge 23 luglio 2021, n. 105, e' stato abrogato dall'art. 7-ter, comma 2, decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199”.
In data 01 luglio 2024 l’ordinanza in questione ha cessato i suoi effetti ed il Ministero della Salute ha comunicato a tutte le direzioni sanitarie territoriali una circolare ministeriale 0019544-01/07/2024 con OGGETTO: "RACCOMANDAZIONI sull'utilizzo dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie nelle strutture sanitarie per la protezione dalle infezioni virali acute.", dove viene indicato: “Con la presente circolare SI RACCOMANDA ai Direttori Sanitari delle succitate strutture, in quanto titolari delle funzioni igienico-sanitarie, di valutare l’opportunità di disporre l'uso dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie nei propri contesti, tenendo conto della diffusione dei virus a trasmissione aerea, delle caratteristiche degli ambienti nonché della tipologia di pazienti, lavoratori o visitatori che li frequentano, in funzione del livello di rischio di infezione e/o trasmissione (ad esempio in presenza di sintomatologia respiratoria o in considerazione della stagionalità) e del potenziale di sviluppo di malattia grave in caso di esposizione”.
CONSIDERATO CHE
Nessuno vuole negare che il popolo italiano sia stato colpito da un virus, il Sars Cov-2, che ha portato alla patologia chiamata Covid-19. Come nessuno può permettersi di negare le persone che hanno subito gravi complicanze che hanno portato anche a numerosi decessi, anche se la sua gestione è unica nel Mondo, Europa compresa. La disamina non è certamente sull’emergenza subita ma sull’operato del Governo per fronteggiarla e l’ordinanza come la circolare ne sono un esempio lampante. Se possiamo dire che l’emergenza sanitaria sia stata empiricamente rilevabile, la stessa cosa non si può dire a livello giuridico su un’emergenza epidemica che pandemica, ambito nel quale ci sono state delle importanti carenze che hanno portato a gravi soprusi illeciti ed illegittimi. Un regolamento aziendale (anche sanitario) DEVE essere comunque conforme a Legge e la direzione sanitaria dovrebbe ricordare che tutti dovrebbero avere un generale dovere di conoscenza della normativa vigente, necessariamente strumentale rispetto al dovere primario di osservanza della legge stessa, la quale oltretutto in questo momento manca. Ogni direzione sanitaria dovrebbe sapere che è solo la Legge conforme che pone obblighi e divieti ai cittadini e non ne ha potere personale e discrezionale. Seppur il Ministero della Salute ponga delle raccomandazioni e di valutare l’opportunità di disporre l’obbligo di tamponi e mascherine, ogni imposizione obbligatoria è perseguibile sia al civile che al penale. L’unica valutazione possibile è NON applicare nessun obbligo che non sia conforme a Legge e Costituzione. Il rispetto di tutte le norme da parte di tutti garantisce già di per sé una certa qualità di vita, quando però qualcuno a qualsiasi livello gerarchico non rispetta qualche principio, non si può sapere quale catena di eventi e reazioni potranno derivare. In poche parole, se le premesse alla base di un fatto sono errate, le conseguenze possono essere inimmaginabili, a danno di molti. La tutela dei nostri diritti, perché vi sono diritti e doveri di tutti, è fondamentale e basilare, soprattutto in situazioni dove rischiamo di incorrere in negligenza, imperizia, imprudenza. L’arbitrio, l’anarchia, l’omertà, il menefreghismo, l’indifferenza e l’ignoranza devono sempre essere combattuti, serenamente, a testa alta da tutti. In base all’articolo 51 c.p. risulta chiaro che: “Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo. Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine” e questa diffida permette più che una discussione sulla lapalissiana nullità dell’ordinanza/circolare.
In più la valutazione di applicare mascherine e tamponi porta anche alla responsabilità contrattuale verso i cittadini italiani. Molti credono che in Italia la sanità sia gratuita, invece è finanziata da soldi pubblici, pagati da ogni cittadino italiano maggiorenne, un po’ come l’assicurazione dell’automobile. Tutti la sottoscrivono ma non tutti poi la utilizzano. Sia per una visita dal medico che una prestazione sanitaria od ospedaliera con ricovero, secondo l’orientamento maggioritario, la responsabilità ascrivibile in capo all’ente ospedaliero è di tipo contrattuale, risultando essa fondata sul cd. contratto di spedalità, ossia il contratto in forza del quale la struttura sanitaria si obbliga a fornire al paziente una complessa prestazione di assistenza sanitaria (consistente nella predisposizione degli spazi necessari, di personale sanitario sufficiente ed efficiente e di attrezzature e macchinari adeguati). Ricondotta l’obbligazione della struttura sanitaria al contratto di spedalità, la giurisprudenza configurava la relativa responsabilità civile come contrattuale ex artt. 1218 c.c. e ss, il quale dispone testualmente che "il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l'inadempimento o il suo ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile". Si parla di inadempimento contrattuale e risarcimento del danno nell’ipotesi in cui, nell’ambito di un contratto tra due parti, la prestazione non sia eseguita da parte di uno di esse al momento dovuto, nel luogo dovuto o secondo le modalità̀ convenute. L’inadempimento all’obbligazione, pertanto, deve essere desunto non già semplicemente dal mancato raggiungimento del risultato, bensì dalla diligenza richiesta ai fini dell’esecuzione della prestazione professionale. La diligenza deve essere valutata con riguardo alla natura dell’attività esercitata (ai sensi dell’art. 1176 c.c.) dove si legge che il debitore "nell'adempiere l'obbligazione deve usare la diligenza del buon padre di famiglia", e si intende che il debitore è obbligato ad osservare una condotta conforme allo standard di riferimento. Pena l'inadempimento e, al tempo stesso, la colpa. L'art. 1453 c.c. dispone che "nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno". Naturalmente resta fermo che se non interessata allo scioglimento del contratto la parte adempiente può attivarsi per far chiedere il rispetto delle condizioni contrattuali. “In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione assistenziale, l’onere di provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa imprevedibile, inevitabile e non imputabile alla stessa sorge solo ove il danneggiato abbia provato la sussistenza del nesso causale tra la condotta attiva od omissiva dei sanitari e il danno sofferto (Cass.Civ. sez. III, 26/07/2017 n. 18392).
Seppur la motivazione edotta sia quella di “proteggere gli altri pazienti od i fragili”, la Struttura Sanitaria dovrebbe comunque già utilizzare il “Protocollo operativo per la prevenzione e il contenimento delle infezioni ospedaliere” ma anche la “Procedura isolamento pazienti con patologie contagiose”, la quale propone di applicare, a scopo di prevenzione primaria, le misure precauzionali dettate nelle Linee Guida delle principali organismi scientifici internazionali (Center for Disease Control and Prevention - CDC). Anche se ci si riferisse alle politiche di gestione del rischio, volte sia alla prevenzione degli errori evitabili che al contenimento dei loro possibili effetti dannosi, e, quindi, in ultima analisi, alla garanzia della sicurezza dei pazienti, queste costituiscono il sistema di gestione del rischio clinico (Clinical Risk Management) ma che non comporta obbligo di trattamenti od esami di nessun tipo. L’applicazione di tali misure appare cruciale per l’approccio al contenimento delle infezioni in ambiente ospedaliero ma che riguardi tutto il personale sanitario, sull’applicazione dei DPI da Dlgs 81/08, cioè trattasi di sicurezza sui luoghi di lavoro. Piuttosto di interrompere illecitamente il percorso di cura dei pazienti, i quali potrebbero giustamente rifiutare mascherina o tampone, si può optare per proporre una camera singola, oppure assieme ad un altro paziente del quale NON si conosce l’esito del tampone naso-faringeo. Ove disponibile, si può preferire stanze con opportuno ricambio d’aria (da 6 a 12 ricambi/ora) con assenza di ricircolo nelle aree circostanti dell’aria estratta. In caso contrario si devono aprire le finestre tutte le volte che è possibile per favorire il ricambio dell’aria. Anche per la mascherina il Protocollo sulle Malattie infettive è chiaro. Qualora il paziente dovesse essere spostato dalla stanza, bisogna fargli indossare se possibile una mascherina chirurgica, non tutto il tempo della degenza. Ed ecco che il contenimento e la gestione dell’epidemia Covid-19 trova la sua legittimità e la sua corretta applicazione nella già ampia e dettagliata normativa vigente, senza eccedere sul corpo dei cittadini.
VISTO CHE
Le direzioni sanitarie come il Ministero della Salute od il Governo, non può obbligare i cittadini in questioni che non può regolamentare come lo sono le mascherine sulla popolazione od il tampone naso-faringeo, dato che oltretutto quest’ultimo sia un esame medico non diagnostico che necessita di consenso informato da parte del paziente, come lo sono anche le vaccinazioni come trattamento farmacologico preventivo, e non è possibile per le direzioni sanitarie renderlo obbligatorio per gravissime non conformità con le disposizioni di Legge nazionali e sovranazionali. E’ ormai indiscusso che la Legge n. 145 del 28 marzo 2001, con la ratifica della Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, ha introdotto nel nostro paese la regola generale secondo la quale ogni paziente debba dare un consenso libero e informato: “Capitolo II – Consenso - Articolo 5 – Regola generale “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”, abrogando tacitamente OGNI obbligo sanitario, vaccinazioni comprese. Il 29 ottobre 2004 si è svolta a Roma la cerimonia della firma del Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa. Hanno firmato la Costituzione i capi di Stato o di governo dei 25 paesi dell'Unione europea e i loro ministri degli esteri dove all’articolo II-63 troviamo: “Diritto all'integrità della persona - 1. Ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psichica; 2. Nell'ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge. Con la Legge n. 219 del 2017, ha inoltre imposto che il consenso informato, sia esso verbale o scritto, debba essere inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico e non fa distinzioni tra i vari trattamenti ed esami dove anche le vaccinazioni sono veri e propri trattamenti farmacologici preventivi, infatti sul foglietto illustrativo troviamo “farmaco iniettabile esclusivamente da personale medico” e regolamentati dalla stessa dove leggiamo: “Art. 1 comma 3. Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi” dove “Comma 5. Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso”. Per essere LIBERO il consenso deve pertanto essere esente da vizi, coercizioni, inganni, errori, pressione psicologica al fine di influenzare la volontà del paziente. Proprio nella recente Legge 219/2017 possiamo leggere all’articolo 1: “1. La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge” ed inoltre: “2. E' promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la responsabilità del medico. Contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l'equipe sanitaria”. Questa regola fa risaltare l’autonomia del paziente nel suo rapporto con i professionisti sanitari e porta a diminuire quegli approcci che ignorerebbero la volontà del paziente. Il paziente deve ritenersi libero di rifiutare in tutto od in parte qualsiasi protocollo medico-ospedaliero. Dunque “si ritiene tramontata la stagione del “paternalismo medico e di Stato” in cui il sanitario si sentiva, in virtù del mandato da esplicare nell’esercizio della professione, legittimato ad ignorare le scelte e le inclinazioni del paziente, ed a trasgredirle quando fossero in contrasto con l’indicazione clinica in senso stretto”. Il consenso del paziente deve formarsi liberamente ed essere immune da violenza, dolo, errore; esso non deve essere contrario all’ordine pubblico o al buon costume. “Il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla libertà di curarsi liberamente espressa dalla persona(…). In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona (Art. 34, 1° e 4° comma Codice di Deontologia Medica)”. “Il medico è obbligato a rispettare la volontà del paziente, senza indagarne le motivazioni ma promuovendo comunque l’adesione alla proposta terapeutica (Cass., sez. IV, 27 marzo 2001, Cicarelli). Il medico, anche vaccinatore, davanti alla piena capacità di intendere e di volere del paziente, deve: “Art. 1 comma 6 - 6. Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale[…]”, ed inoltre: “Art. 1 comma 5 – […]Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l'accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. In più nel Codice Deontologico del Medici si legge chiaramente: “Art. 17 Rispetto dei diritti del cittadino - Il medico nel rapporto con il cittadino deve improntare la propria attività professionale al rispetto dei diritti fondamentali della persona”. La Corte di Cassazione in merito all’onere dell’acquisizione del consenso informato previsto dalla legge n.219/2017, ha stabilito che è un dovere proprio di chi prescrive ed effettua la prestazione sanitaria acquisire personalmente il consenso informato, il medico in rapporto alla responsabilità specifica di propria diretta competenza dell’intervento proposto. (Cass.sez Civile III° n.29709/2019, n.28985/2019 e ord.n.16892/2019). Ai sensi dell’art. 27 del codice penale la responsabilità è personale. Quindi non può essere delegato a terzi un compito proprio preliminare alla propria prestazione, come è l’acquisizione del consenso informato per un atto medico. L’art.35 del codice deontologico medico 2014 afferma: L’acquisizione del consenso informato o del dissenso è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, “non delegabile”. L’art. 1, comma 2, della legge n.219/2017, in merito alla relazione di cura e fiducia tra paziente e medico, afferma che nel consenso informato si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, autonomia e responsabilità professionale del medico. Lo stesso comma 2 specifica che “contribuiscono” alla relazione di cura in base alle rispettive competenze gli esercenti una professione sanitaria che compongono un’equipe sanitaria. Pertanto è di chiara evidenza che le informazioni fornite al paziente dall’equipe sanitaria sono solo integrative e non sostitutive di quelle dovute dal medico per l’acquisizione di un valido consenso informato all’atto medico. Il codice civile all’art. 12 (interpretazione della legge) afferma: nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Il medico acquisisce in forma scritta e sottoscritta o “con altre modalità di pari efficacia documentale” il consenso o il dissenso del paziente. Un modulo generico somministrato da terzi anche se sottoscritto di per sé non costituisce prova di un valido consenso acquisito, ma è necessario che sia integrato da spiegazioni dettagliate in un colloquio diretto col medico (Cass. Sez.Civ. III° n.23329/2019, n.19220/2013, n.24791/2008; Tribunale Pordenone n.852/2010). Il Consenso informato è un atto precontrattuale in cui si forma e si orienta la volontà dell’assistito e in cui le parti sono tenute ad operare in buona fede (art. 1377 CC) nel rispetto dei diritti tutelati dagli artt. 2, 13, 32 della Costituzione (Corte Cost. n.438/08). Il trattamento contro la volontà dell’assistito configura una responsabilità penale a carico del sanitario (Cass. sez. Pen. V° n.38914/2015 e n.50497/2018). In tema di responsabilità sanitaria la dimostrazione dell’assolvimento dell’obbligo (di avere posto il paziente nelle condizioni) di prestare il consenso informato, che si qualifica quale obbligo contrattuale ex articolo 1218 del codice civile grava sulla struttura ospedaliera. La violazione di tale obbligo ha potenzialmente rilievo a prescindere dall’esito favorevole o meno della prestazione medica, in quanto in grado di incidere sulla capacità di autodeterminazione del paziente. La dimostrazione – invece – di un nesso causale tra la lesione del diritto di autodeterminazione e danno effettivamente subito, spetta al paziente, rientrando tale elemento tra gli oneri in capo all’attore qui dicet (Cass. Sez.Civ. III n. 21/06/2018 n. 16324). La centralità del diritto all’autodeterminazione porta il Tribunale a sottolineare un passaggio centrale della pronuncia della Corte di Cassazione Penale SS.UU.2 n. 2437/2008 (c.d. Giulini), ossia che: “il presupposto indefettibile che giustifica il trattamento sanitario va rinvenuto nella scelta, libera e consapevole della persona che a quel trattamento si sottopone” con la conclusione che “in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona". Ferma restando, dunque, la sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato in corpore vili "contro" la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata. Detta pronuncia della Suprema Corte pone al centro dell’esperienza sanitaria il paziente che, in quanto individuo cui la Costituzione riconosce diritti inviolabili, ha la legittima aspettativa di vedere tutelati i valori che caratterizzano la propria persona. Per questo motivo il medico deve desistere “dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”, anche qualora l’esito possa rivelarsi infausto per lo stesso. Fra l’altro la Corte riconosce espressamente che questa volontà possa essere anche “indirettamente” manifestata.
Obbligare al tampone, come a qualsiasi altro esame o trattamento, potrebbe essere violenza privata ed un trattamento non necessario potrebbero esporre il paziente a rischi inutili, il tampone naso-faringeo non viene reputato pericoloso ma lo è la procedura che richiederebbe anche uno specialista. Se fosse di vitale importanza, per non essere in eccesso si può tranquillamente chiedere il consenso per una ricerca sugli anticorpi con le analisi del sangue, se già previste per l’intervento. Bisogna avere molto chiaro che una cura o un esame non motivato, anche il meno invasivo, per il cittadino è un inutile rischio per la salute dove anche tutti gli esami possono dare esiti sbagliati. Sia perché non identificano un disturbo (falsi negativi), sia perché lo identificano quando non c’è (falsi positivi). Questo può creare una catena di conseguenze dannose: nel caso dei falsi positivi, ad esempio, una serie di nuovi esami inutili, con tutte le ansie, i rischi e le spese conseguenti. Un esame in eccesso potrebbe essere un guadagno per il fornitore ed un danno erariale per i cittadini se non un danno patrimoniale per il paziente. Nonostante che l’OMS abbia messo in guardia contro l’abuso mondiale dei test PCR, e sui cui risultati si basano però i dati ufficiali di una continua emergenza, la maggior parte dei governi e autorità (seppur non tutti, vedi p.e. la Svezia, il Florida e alcuni altri) continuano con questa pratica abusiva di non corretta applicazione dei test PCR. Ci sono Paesi come la Svezia e il Florida, che già da tanti mesi utilizzano il test PCR secondo le regole scientifiche, e cioè applicando dei valori di CT ragionevoli (mai sopra il 30), richiedendo ai laboratori la rigorosa indicazione di tale valore nelle comunicazioni del risultato e prevedono, comunque, la necessità della diagnosi clinica da parte del medico per determinare la sussistenza o meno di un effettivo caso positivo. In Italia e nella maggior parte dei paesi caratterizzati da una deriva autoritaria, alle persone testate non viene detto né quale tipo di test PCR viene applicato su di loro, né quale sia il valore di CT, cioè il numero di cicli di amplificazione che erano necessari per ottenere il risultato di laboratorio asseritamente positivo. Oltretutto se andiamo a leggere le istruzioni di alcune marche di tamponi rapidi possiamo leggere: “Test rapido per la rilevazione degli antigeni nucleocapsidici SARS-CoV-2 in campioni di tampone nasale anteriore. Solo per uso diagnostico in vitro. Per l'autotest. Il test rapido per l'antigene SARS-CoV-2 è un test a flusso laterale per la rilevazione qualitativa dell'antigene nucleocapside da SARS-CoV-2 in campioni di tampone nasale anteriore direttamente da individui sospettati di COVID-19 entro i primi sette giorni dall'inizio dei sintomi. Il test può essere usato per analizzare campioni di soggetti asintomatici. Non distingue tra SARS-CoV e SARS-CoV-2. I risultati riguardano l'identificazione dell'antigene di SARS-CoV-2. Tale antigene si riscontra generalmente nei campioni prelevati dal tratto respiratorio superiore durante la fase acuta dell'infezione. I risultati positivi indicano la presenza di antigeni virali, ma per determinare lo stato dell'infezione sono necessarie l'anamnesi e altri diagnostici personali. I risultati positivi non escludono la presenza di infezioni batteriche o l'infezione simultanea con altri virus. L'agente patogeno rilevato potrebbe non essere la causa esatta della patologia. I risultati negatici ottenuti si soggetti con sintomi comparsi da oltre sette giorni dovrebbero essere trattati come probabili negativi. Se occorre, cercare la conferma attraverso un'analisi molecolare. I risultati negativi non escludono l'infezione da SARS-CoV-2. Il test antigenico rapido per SARS-CoV-2 è destinato all'uso come supporto per la diagnosi dell'infezione da SARS-CoV-2” dove, se cerchiamo SARS CoV troviamo: “Il coronavirus da sindrome respiratoria acuta grave, abbreviato in SARS-CoV o SARS-CoV-1 (dall'inglese Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 1), è un ceppo virale della specie SARS-related coronavirus, appartenente al genere dei Betacoronavirus, sottogenere Sarbecovirus. I Betacoronavirus (β-CoV) sono il secondo di quattro generi: alfa, beta, gamma e delta, della sottofamiglia Orthocoronavirinae nella famiglia dei Coronaviridae, dell'ordine Nidovirales. Si ritiene che i coronavirus causino una percentuale significativa di tutti i raffreddori comuni negli adulti e nei bambini. I sintomi che si riscontrano più frequentemente sono febbre e adenoidite acuta con maggior incidenza durante l'inverno e l'inizio della primavera. In molti casi i coronavirus possono causare polmonite, polmonite virale diretta o polmonite batterica secondaria; inoltre possono portare anche allo sviluppo di bronchite, bronchite virale diretta o bronchite batterica secondaria. I ceppi causa delle principali patologie che interessano l'uomo appartengono al genere Betacoronavirus. I coronavirus sono stati responsabili delle gravi epidemie di SARS del novembre 2002, di quella della MERS del 2012 e della pandemia di COVID-19 del 2020. Dato che nei tamponi rapidi troviamo scritto chiaramente: “I risultati positivi indicano la presenza di antigeni virali, ma per determinare lo stato dell'infezione sono necessarie l'anamnesi e altri diagnostici personali. I risultati positivi non escludono la presenza di infezioni batteriche o l'infezione simultanea con altri virus. L'agente patogeno rilevato potrebbe non essere la causa esatta della patologia” ed ecco forse risolto il mistero di chi si ammala più volte con positività a tampone, non si sa a cosa a questo punto, o del perché si sia ammalato anche chi vaccinato con tre /quattro dosi.
Ed è qui che si pongono seri dubbi sull’esercizio del potere di ordinanza e successiva circolare da parte del Ministero della Salute in ambito nazionale, visto che dovrebbe rispettare limiti più rigorosi e stringenti rispetto a quelle che consentono deroghe alla normativa primaria limitate ad un area territoriale. L’adozione da parte di un’amministrazione di una ordinanza in deroga alla Legge non può essere configurata come un illecito giustificato a posteriori, sulla base della constatazione dello stato di necessità. E’ prevista, al contrario, come originariamente lecita, nel rispetto dei canoni definiti dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n.8 del 19564: «efficacia limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell'urgenza; adeguata motivazione; efficace pubblicazione nei casi in cui il provvedimento non abbia carattere individuale; conformità del provvedimento stesso ai principi dell'ordinamento giuridico». Se vogliamo definire i poteri di ordinanza in emergenza epidemica dobbiamo guardare alla Massima Autorità Sanitaria territoriale, cioè il Sindaco, e li possiamo trovare nell’art. 1 del D.L. 25 marzo 2020, n. 19, convertito in Legge 22 maggio 2020, n. 35 che ha creato atti necessitati da parte del Governo, anche per non trovarsi con azioni illecite ed illegittime. In altri termini, presupposto per l’adozione dell’ordinanza sindacale extra ordinem è il pericolo per l’incolumità pubblica dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed indilazionabili, consistenti nell’imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato. E’ chiaro che il Sindaco possa applicare la quarantena a soggetti malati certificati (non basta la positività ad un tampone NON diagnostico per la patologia Covid-19) o più precisamente “contumacia” dove si intenda una misura sanitaria di isolamento che prevede l’obbligo di rimanere in ospedale o nella propria casa per un periodo definito dalle autorità sanitarie. È previsto per malattie altamente pericolose, contagiose e rare nel territorio di riferimento. Il sindaco può altresì chiudere tutte le attività pubbliche, private e lavorative ed invitare i cittadini a non muoversi se non per necessità, per creare una specie di coprifuoco, ma NON PUO’ OBBLIGARE NESSUNO all’uso della mascherina né chirurgica né FFp2 oppure ad un trattamento medico. E se non può il Sindaco non può nemmeno il Ministro della Salute dando possibilità ai Dirigente/Direttori di scelta se applicare o meno l’imposizione illecita. Questo perché uno dei principi cardini è quello della proporzionalità, che fa obbligo ad ogni autorità amministrativa di presceglier il mezzo meno gravoso a carico dei soggetti incisi, in modo tale che la salvaguardia dell’interesse pubblico sia effettuata con il minor sacrificio di quello privato. Sacrificio che non può essere un danno sulla salute se lo strumento indicato non è conforme od idoneo dal costruttore stesso per le mascherine, ed un trattamento medico non diagnostico ma che il paziente può rifiutare seppur necessario per la propria patologia.
Chiunque viva in Italia è ben conscio che il Governo ha già apposto come obbligatori dei Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) sui cittadini, ad esempio le cinture di sicurezza come il casco, per proteggerli individualmente ma, questi dispositivi, devono essere adeguati alla loro funzione, conformi a tutti i cittadini e devono avere un’attenta valutazione rischio/beneficio perché niente e nessuno può creare un danno ad un cittadino, neanche a fin del suo bene. Quando viene scritto che “è fatto obbligo di utilizzo dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie” oppure di rendere obbligatoria anche la sua raccomandazione è lapalissiano che si possa parlare esclusivamente di Dispositivi di Protezione delle vie respiratorie, i DPI delle vie respiratorie, definiti anche Apparecchi di Protezione delle Vie Respiratorie (APVR), che sono dispositivi destinati a proteggere da sostanze pericolose allo stato aeriforme (particelle, vapori, gas) mediante il meccanismo della filtrazione non si può parlare di sciarpina o di mascherine di comunità, di stoffa od altri materiali. Infatti oggi non si parla più di mascherine chirurgiche ma di FFp2. Appurato che non sono DPI le "mascherine chirurgiche" o "igieniche" sprovviste di filtro di cui alla norma UNI EN 14683, comunemente impiegate in ambito sanitario e nell'industria alimentare. Queste infatti appartengono alla categoria dei dispositivi medici (in genere) che, indicati dai Regolamenti (UE) 2017/745 e 2017/746 ed in base all’art. 15 della Legge 22 aprile 2021, n. 53, è in elaborazione l’atto di adeguamento della normativa italiana al dettato del regolamento per la disciplina degli aspetti di interesse sanitario, dalle indagini cliniche fino alle attività di sorveglianza post-commercializzazione, vigilanza e sorveglianza del mercato e si applica alla maggior parte dei prodotti reperibili sul mercato. Le mascherine chirurgiche non possano rientrare, per loro caratteristiche intrinseche, tra i dispositivi di protezione individuali o i dispositivi di protezione collettiva, ma che restino dispositivi medico chirurgici, come disposto da Regolamento 2017/745/UE e che solo il Medico di Medicina Generale od un medico Specialista può prescrivere ad un paziente che ne necessitasse per motivi di comprovata salute, anche per non violare l’Art. 5, Legge 22 maggio 1975 n. 152, mod. da Legge n. 533 dell’8 agosto 1977 e D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla L. 31 luglio 2005, n. 155 che cita testualmente che girare col volto mascherato è illegale ma non è reato. Per legge, per chi viola il divieto di comparire mascherato in un luogo pubblico è prevista la sanzione amministrativa da 10 a 103 euro. Solo la prescrizione medica omette l’obbligo di Legge e solo la prescrizione medica mette il datore di lavoro nelle condizioni di permettere al dipendente di indossare il DM consigliato. Le mascherine facciali di tipo chirurgico hanno lo scopo di evitare che chi le indossi contamini l’ambiente, in quanto limitano la trasmissione di agenti infettivi, e sono utilizzate in ambiente ospedaliero e in luoghi ove si presti assistenza a pazienti. Infatti anche nella GUIDA OPERATIVA PER L'APPLICAZIONE DELLE MISURE DI ISOLAMENTO PRESSO TUTTE LE STRUTTURE DI CURA SANITARIA con base del Ministero della Sanità Decreto 28.09.1990 - Norme di protezione dal contagio professionale da HIV nelle strutture sanitarie ed assistenziali pubbliche e private - dove si mira a migliorare la sicurezza delle cure sanitarie e fornire metodi per ridurre la trasmissione interpersonale di agenti patogeni noti e/o sospetti. L'isolamento in ambito ospedaliero può essere: spaziale che consiste nello spostamento del paziente in una stanza singola, con un bagno dedicato; di coorte che consiste nel collocare, nella stessa stanza, pazienti con la stessa infezione. La mascherina chirurgica viene definita: Dispositivo Medico atto a proteggere il paziente dall'esposizione ad agenti infettivi che colonizzano la bocca e/o il naso degli operatori sanitari. Le misure aggiuntive sono adeguate a prevenire la trasmissione per via aerea; droplet/goccioline; contatto diretto ed indiretto. Le Precauzioni basate sulla modalità di trasmissione (Precauzioni Aggiuntive) sono indicate per pazienti con infezione accertata, sospetta o per pazienti colonizzati da patogeni altamente trasmissibili o epidemiologicamente importanti per i quali sono necessarie, per interrompere la catena di trasmissione nei REPARTI INFETTIVI e dovrebbe essere confinato solo lì, come lo è sempre stato. In presenza di vero rischio biologico documentato.
In particolare, nel documento ex ISPESL “Criteri procedurali per la scelta e caratterizzazione dei Dispositivi di Proiezione Individuale per il rischio biologico in attuazione degli adempimenti del D.Lgs. 81/2008 e smi”, relativamente all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale per la protezione specifica delle vie respiratorie da agenti biologici, quali i facciali filtranti e i filtri da collocare sulle semimaschere e/o sulle maschere a pieno facciale, viene testualmente riportato: "I DPI per la protezione specifica delle vie respiratorie da agenti biologici, quali facciali filtranti e filtri da collegare sulle semimaschere o sulle maschere a pieno facciale, sono caratterizzati da una certificazione di Tipo emessa dall'Organismo Notificato che attesti la marcatura CE come dispositivo di protezione individuale in III categoria secondo la Direttiva 686/89 CE e attesti la protezione da agenti biologici del gruppo 2 e 3, ai sensi della Direttiva 54/2000 CE". Si ritiene utile precisare che la certificazione CE dei dispositivi di protezione individuale deve essere esclusivamente effettuata in conformità a quanto disposto dalla Direttiva 89/686/CEE, recepita in Italia con il Decreto Legislativo 475/92 e successive modifiche e integrazioni e che per questa certificazione possono essere utilizzate le norme armonizzate pubblicate nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea e riprese in quella italiana in quanto assicurano presunzione di conformità ai requisiti essenziali richiesti dalla direttiva europea. Occorre quindi evidenziare che l'uso dei dispositivi per la protezione delle vie respiratorie conformi alla norma europea armonizzata EN 149 e certificati CE ai sensi della Direttiva 89/686/CEE, è ritenuto idoneo anche per la protezione da agenti biologici aerodispersi in numerosi documenti sia nazionali (prodotti ad esempio dal Ministero della Salute e dallo stesso ex ISPESL) che internazionali (prodotti ad esempio dall'Organizzazione Mondiale della Sanità - WHO e dal NIOSH). Pertanto, ne deriva che solo i dispositivi di protezione delle vie respiratorie provvisti di certificazione CE di Tipo secondo la Direttiva 89/686/CEE possono essere liberamente commercializzati e che sarà compito del fabbricante dei dispositivi di protezione individuale dichiararne la conformità ai requisiti dall'Allegato II della direttiva succitata, dopo che sullo stesso è stato emesso da un Organismo Notificato un attestato di esame del Tipo conseguente a specifiche prove di laboratorio, fermo restando che l'utilizzo della norma europea armonizzata EN 149 assicura presunzione di conformità ai requisiti di cui all’Allegato II citato anche per quanto riguarda la protezione da agenti biologici. Stante quanto sopra esposto, si conclude che risultano idonei per la protezione da agenti biologici, in ambienti a rischio biologico ACCERTATO, sia i dispositivi di protezione delle vie respiratorie provvisti di certificazione CE di cui al Capitolo II della Direttiva 89/686/CEE, che attesti la protezione da agenti biologici dei gruppi 2 e 3 così come definiti nella Direttiva 2000/54/CE, sia quelli provvisti di certificazione CE di cui al Capitolo II della Direttiva 89/686/CEE, basata sulla norma europea armonizzata EN 149”. In presenza di contaminazioni elevate o di agenti biologici estremamente pericolosi come quelli di gruppo 4 (per es. virus delle febbri emorragiche), potrebbe essere necessario isolare completamente l'operatore dall'ambiente esterno impiegando autorespiratori che forniscono aria diversa da quella dell'ambiente di lavoro. In virtù del fatto che, in mancanza di una norma specifica, sono riconosciute valide le certificazioni di Tipo CE rilasciate da un Organismo Notificato, attualmente sono disponibili dispositivi per la protezione delle vie aeree dagli agenti biologici di gruppo 2 e 3, come DPI di III categoria che non rispondono alla norma UNI EN 149, ma sono dotati di certificazione di Tipo CE. Per le attività sanitarie (rischio biologico), veterinarie o di laboratorio e, comunque in presenza di pazienti, animali o campioni biologici potenzialmente infetti da microrganismi a trasmissione aerea responsabili di patologie gravi quali meningite, tubercolosi ecc., è raccomandato l'utilizzo di maschere intere con protezione P2, aventi capacità filtrante pari almeno al 95%, perdita di tenuta non superiore al 10% ed efficienza di filtrazione dei microrganismi del 94%. Nell'esecuzione di particolari procedure assistenziali che possono aumentare il rischio di dispersione nell'aria di secrezioni respiratorie (es. broncoscopie, aerosolterapie) è raccomandabile dotarsi di protezioni aventi efficienza filtrante P3. Se andiamo ad analizzare il protocollo per gli operatori sanitari con identificazione del rischio biologico, esposti a Covid-19, ci possiamo rendere facilmente conto del perché non è possibile utilizzare solo la chirurgica o FFp2, anche visitatori/accompagnatori/utenti. La selezione del tipo di DPI deve tenere conto del rischio di trasmissione di COVID-19 ed i DPI per la gestione di patologie ad alta contagiosità comprendono: Occhi/ Occhiali (DPI II cat.)-Occhiali a maschera (DPI III cat.); Occhi e mucose/Visiera (DPI III cat.); Vie respiratorie/Semimaschera filtrante-Semimaschera e quarti di maschera; Corpo/Indumenti di protezione (DPI III cat); Mani/Guanti monouso (DPI III cat); Arti inferiori/Calzari (DPI I, II, III cat.). Anche la procedura di vestizione e svestizione presenta delle sequenze precise per evitare il rischio di contagio. Nel rimuovere la mascherina FFp2 va assolutamente smaltita nel contenitore RSP-I (RIFIUTI SANITARI PERICOLOSI A RISCHIO INFETTIVO [RSP-I]) che mancano totalmente fuori le strutture socio-sanitarie.
Per comprendere meglio le imposizioni Covid19 sui luoghi di lavoro si deve tornare al 14 marzo 2020 quando viene redatto il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, con approfondimenti il 24 aprile 2020 ed il 6 aprile 2021, dove inizialmente “l’obiettivo del presente protocollo condiviso di regolamentazione è fornire indicazioni operative finalizzate a incrementare, negli ambienti di lavoro non sanitari, l’efficacia delle misure precauzionali di contenimento adottate per contrastare l’epidemia di COVID-19. Succedono anche altri due protocolli sulla stessa linea dove il COVID-19 rappresenta un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione. Il presente protocollo contiene, quindi, misure che seguono la logica della precauzione e seguono e attuano le prescrizioni del legislatore e le indicazioni dell’Autorità sanitaria”, dove viene fatto credere che riguardi tutte le attività ma che non trova riscontro nell’articolo 16 nel Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in Legge 24 aprile 2020, n. 27, con modificazione del DL 19 maggio 2020, n. 34 convertito in Legge 17 luglio 2020, n. 77 dove troviamo all’articolo 66: “Per contenere il diffondersi del virus COVID-19, fino al termine dello stato di emergenza di cui alla delibera del Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020, sull'intero territorio nazionale, per tutti i lavoratori e i volontari, sanitari e no (NO=dipendenti esterni che riguardano solo le attività a rischio biologico), che nello svolgimento della loro attivita' sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro (N.d.R. tra dipendenti), sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI), di cui all'articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio, il cui uso e' disciplinato dall'articolo 34, comma 3, del decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9”, ed anche nel decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 all’articolo 5 comma 8 troviamo: “Fino al 30 aprile 2022 sull'intero territorio nazionale, per i lavoratori, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI) di cui all'articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, le mascherine chirurgiche (DM). Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari”, dove si parla di mascherine CE (che NON possono essere DPI perché sono DISPOSITIVI MEDICI-DM) esclusive per i lavoratori, pubblici o privati che già predisponevano il filtrante facciale (APVR), dipendenti delle aziende a rischio biologico (materiale biologico) come lo sono le:
- Attività in industrie alimentari
- Attività nell'agricoltura
- Attività nelle quali vi è contatto con animali e/o prodotti di origine animale
- Attività nei servizi sanitari, comprese le unità di isolamento e post mortem
- Attività nei laboratori clinici, microbiologici, veterinari e diagnostici (nei laboratori di microbiologia sono presenti entrambi i rischi, quello potenziale e quello legato all'uso deliberato di microrganismi)
- Attività negli impianti di smaltimento rifiuti e di raccolta di rifiuti speciali potenzialmente infetti
- Attività negli impianti per la depurazione delle acque di scarico.
Per tutte le altre aziende (bar, ristoranti, uffici, fabbriche, scuole, palestre, piscine ecc. ecc.) il biorischio è già calcolato ma mai vengono applicati DPI specifici dato non vengano trattati né patogeni né liquidi biologici. Gli agenti biologici, definiti secondo il D.Lgs 81/2008, Titolo X come "qualsiasi microrganismo anche geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie, intossicazioni", sono stati classificati secondo un criterio di pericolosità tenendo conto delle condizioni prevalenti nell'area geografica presa in considerazione. Nel Decreto-Legge 7 ottobre 2020, n. 125 convertito con modificazioni dalla L. 27 novembre 2020, n. 159 troviamo all’Art. 4 - Attuazione della direttiva (UE) 2020/739 della Commissione del 3 giugno 2020, concernente l'inserimento del SARS-CoV-2 nell'elenco degli agenti biologici di cui e' noto che possono causare malattie infettive nell'uomo – al comma 1. “All'allegato XLVI del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, nella sezione VIRUS, dopo la voce: «Coronaviridae - 2» e' inserita la seguente: «Sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus 2 (SARS-CoV-2)(0a) - 3»; La Direttiva (UE) 2020/739 della Commissione del 3 giugno 2020 che modifica l’allegato III della direttiva 2000/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda l’inserimento del SARS-CoV-2 nell’elenco degli agenti biologici di cui è noto che possono causare malattie infettive nell’uomo e che modifica la direttiva (UE) 2019/1833 della Commissione, dove riassumiamo con “La direttiva 2000/54/CE, al di sopra delle Leggi ordinarie nazionali, stabilisce norme per la protezione dei lavoratori contro i rischi che derivano o possono derivare per la loro sicurezza e salute dall’esposizione agli agenti biologici durante il lavoro, ivi comprese norme per la prevenzione di tali rischi. Essa si applica alle attività in cui i lavoratori sono o possono essere esposti ad agenti biologici a causa della loro attività lavorativa e stabilisce, per qualsiasi attività che possa comportare un rischio di esposizione ad agenti biologici, le misure da adottare al fine di determinare la natura, il grado e la durata dell’esposizione dei lavoratori a tali agenti […] Tenuto conto delle prove scientifiche più recenti e dei dati clinici disponibili nonché dei pareri forniti da esperti che rappresentano tutti gli Stati membri, il SARS-CoV-2 dovrebbe quindi essere classificato come patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3 […] La direttiva (UE) 2019/1833 ha modificato anche gli allegati V e VI della direttiva 2000/54/CE, che stabiliscono le misure e i livelli di contenimento per i laboratori, i servizi veterinari e l’industria (aziende a rischio biologico)”. MAI si trova menzione delle “varianti” di Sars Cov-2 che, ad oggi, non sono regolamentate quindi giuridicamente irrilevanti per i cittadini e lavoratori ma che potrebbero, al massimo, interessare i reparti infettivi e l’ambiente sanitario.
Nel decreto-Legge 23 febbraio 2021, n. 15, all’articolo 1 troviamo: “Art. 1 -Denominazione del territorio nazionale in zone - 1 All'articolo 1 del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2020, n. 74, dopo il comma 16- sexies è aggiunto il seguente: «16-septies. Sono denominate: “Zona Bianca-Gialla-Arancione-Rossa” dove la competenza per la comunicazione della valutazione rischio per le aziende a rischio biologico spetta ESCLUSIVAMENTE a queste autorità:
- Ministero della Salute
- Istituto Superiore di Sanità (ISS)
- Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL)
- Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
- Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC)
Mai si menziona il Governo od il Parlamento. Comunicazione che poteva essere fatta anche tramite semplice circolare ministeriale dato riguardanti le aziende sanitarie ed ospedaliere di competenza del Ministero della Salute. Se si menziona l’art. 1 comma 16 del DL 16 maggio 2020, N. 33, come anche il DL 44/2021, entra in gioco non più un’emergenza epidemica ma una valutazione rischi da parte del Ministero della Salute che comporta i DVR Covid e le indicazioni alle aziende sanitarie ed ospedaliere (come veterinarie e RSA) subordinate a tale Ministero. Infatti al comma 16 troviamo: “Per garantire lo svolgimento in condizioni di sicurezza delle attività economiche, produttive e sociali, le regioni monitorano con cadenza giornaliera l'andamento della situazione epidemiologica nei propri territori e, in relazione a tale andamento, le condizioni di adeguatezza del sistema sanitario regionale. I dati del monitoraggio sono comunicati giornalmente dalle regioni al Ministero della salute, all'Istituto superiore di sanità e al comitato tecnico-scientifico di cui all'ordinanza del Capo del Dipartimento della protezione civile del 3 febbraio 2020, n. 630, e successive modificazioni. In relazione all'andamento della situazione epidemiologica sul territorio, accertato secondo i criteri stabiliti con decreto del Ministro della salute del ((30 aprile 2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 112 del 2 maggio 2020,)) e sue eventuali modificazioni, nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020, la Regione, informando contestualmente il Ministro della salute, può introdurre misure derogatorie, ampliative o restrittive, rispetto a quelle disposte ai sensi del medesimo articolo 2”. Il colore bianco/verde, giallo, arancione e rosso indica, tramite segnalazioni delle ASL, le 4 categorie di rischio, dichiarate dal Ministero della Salute, che non colpiscono le attività a rischio generico ma si riferiscono in modo specifico solo alle aziende sanitarie/ospedaliere che NON chiudono ma applicano DPI in base al rischio:
- Scenario 1 (bianco o verde) – Zone nelle quali non siano presenti, nell’intera provincia, conclamati casi - Bassa probabilità di diffusione del contagio
- Scenario 2 (giallo) – Zone nelle quali siano presenti, nella provincia, conclamati casi - Media probabilità di diffusione del contagio
- Scenario 3 (arancione) – Zone a ridosso delle ZONE ROSSE (Comuni che hanno dichiarato lo Stato di Emergenza) ovvero nelle quali siano presenti, nelle limitrofe città, conclamati casi - Elevata probabilità di diffusione del contagio
- Scenario 4 (rossa) – Zone ROSSE (Comuni che hanno dichiarato lo Stato di Emergenza) nelle quali siano presenti, nella medesima città della sede di lavoro, conclamati casi -Molto elevata probabilità di diffusione del contagio
Resta indiscusso che la dichiarazione di “Stato di Emergenza”, pubblicata sull’Albo Pretorio, da parte dei Comuni SIA OBBLIGATORIA proprio per identificare le “Aree Rosse”. La normativa regionale, ovviamente, si articola nell’alveo di quella nazionale, la quale prevede atti necessitati, sempre ricollegandosi al Codice della Protezione Civile aggiornato con D.lgs. 1/2018. Infatti in seguito alla chiamata di pandemia da Covid-19 si è evidenziata l’importanza di capire quali attività lavorative avrebbero dovuto aggiornare il Documento della Valutazione dei Rischi (DVR), ossia il documento obbligatorio ai sensi del D.lgs. 81/08 e che tutti i datori di lavoro devono redigere per la valutazione dei rischi e dei pericoli per realizzare la protezione della salute e della sicurezza. Come è noto, in questo decreto al capitolo X Art.266 si parla di rischio di esposizione ad agenti biologici e in particolare “a tutte le attività lavorative nelle quali vi è un rischio di esposizione ad agenti biologici”. Dunque, tra le causali da cui deriva l’obbligo di rielaborazione del DVR non sono indicate circostanze ambientali estranee ai rischi specifici aziendali come è una epidemia. Di fronte alla comparsa di un rischio biologico generico che minaccia la salute pubblica spetta alle pubbliche autorità – disponendo esse istituzionalmente dei necessari strumenti (competenze scientifiche e poteri) – rilevarlo, darne comunicazione, indicare le misure di prevenzione e farle osservare, appunto tramite i colori bianco/verde, giallo, arancione, rosso. Ad esse, comunicate dal Ministero della salute, il datore di lavoro si dovrà adeguare, dovendo ovviamente rispettare il precetto generale, senza che per questo debba stravolgere il proprio normale progetto prevenzionistico in azienda. Tali misure si affiancheranno provvisoriamente – per la durata della fase di emergenza – a quelle ordinarie, conservando la propria distinta natura e funzione. Infine, anche l’Ispettorato del lavoro ha sottolineato nella nota 89/2020 “come rispetto a tali obblighi, non sia riconducibile all’attività del datore di lavoro ma si concretizzi in una situazione esterna e che sono dinamiche esterne non controllabili dal datore di lavoro. In tali casi il datore di lavoro non sarebbe tenuto ad aggiornare il DVR in quanto trattasi di un rischio non riconducibile all’attività e cicli di lavorazione e, quindi, non rientranti nella concreta possibilità di valutarne con piena consapevolezza tutti gli aspetti gestionali del rischio, in termini di eliminazione alla fonte o riduzione dello stesso, mediante l’attuazione delle più opportune e ragionevoli misure di prevenzione tecniche organizzative e procedurali tecnicamente attuabili. Diverso è il caso degli ambienti di lavoro sanitario o sociosanitario o qualora il rischio biologico sia un rischio di natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell’azienda”. Se anche il datore di lavoro avesse aggiornato il DVR sul Covid-19, il D.lgs. 81/08 non indicava niente di più di quello già previsto per la professione in oggetto e dei suoi dipendenti. La direzione sanitaria non può obbligare i cittadini come utenti/visitatori ma anche pazienti all’applicazione del D.lgs 81/08 che, in base al Covid-19 ha solamente inserito il Sars Cov-2 nel biorischio 3. Per Gruppo di rischio 3 si intende: elevato rischio individuale, basso rischio collettivo. In questo gruppo sono presenti tutti gli agenti patogeni che causano gravi malattie nella singola persona e hanno una bassa-moderata probabilità di diffondersi nella comunità. Tra questi ricordiamo il virus dell’epatite C, il virus dell’epatite B, il virus dell’immunodeficienza umana, il Mycobacterium tuberculosis ed il SARS CoV-2. Detto questo i DPI sono già predisposti e riguardano SEMPRE le aziende a rischio biologico e non generico.
CONSIDERATO CHE
Le direzioni sanitarie probabilmente credeno di applicare una indicazione conforme, come potrebbe essere quella anti fumo (Legge Sirchia 2003 “Tutela della salute dei non fumatori”) ed è lapalissiano che possano impedire l’accesso sia ai cittadini che ai dipendenti con la sigaretta in bocca e quindi creda, allo stesso modo, di poter impedire l’accesso ai cittadini che dipendenti senza mascherina. Ma il datore di lavoro fa rispettare una Legge in tutela di tutti quelli che potrebbero respirare il fumo passivo. Collabora come quando chiama le FdO se all’interno della sua attività ci fossero azioni criminose. Lui ha la competenza della tutela della salute dei suoi lavoratori sui luoghi di lavoro e di evitare incidenti, infortuni ed eventuali malattie professionali ma riconducibili alla propria professione. Niente altro. Ma è qui che si chiede l’esercizio del pensiero critico perché non è la stessa cosa. Gli effetti sulla salute del fumo passivo sono ben più gravi di quanto si pensasse. Il fumo passivo contiene infatti più di 50 sostanze cancerogene, che vengono inalate dai non fumatori quasi nelle stesse quantità che assorbe chi fuma. E poiché l’organismo dei bambini e degli adolescenti è ancora in via di sviluppo, sono proprio i più piccoli i più vulnerabili rispetto agli effetti del fumo passivo, infatti il divieto è anche previsto nelle dimore private come in macchina. L’esposizione a fumo passivo può essere facilmente evitabile con ambienti completamente liberi da fumo (“smoke free”) che costituiscono soluzioni semplici, testate ed efficaci per la prevenzione dei danni da fumo. Anche i sistemi di ventilazione più sofisticati, infatti, non possono eliminare completamente il fumo passivo: solo gli ambienti smoke-free assicurano una protezione totale ai non fumatori. Ecco perché impedire l’accesso ai luoghi pubblici come anche nelle dimore private, agli strumenti che creano fumo passivo nocivo, e non ai fumatori a prescindere, è corretto e conforme. Ma qui allora vanno chiariti e divisi i due concetti. Od è un DPI per la propria sicurezza personale od una specie di TSO (dispositivo medico imposto) per tutelare la salute degli altri. Costituzionalmente si può dire che il sacrificio dell’autodeterminazione di ciascuno si giustifica proprio e solo in presenza di rischi per gli altri. Ma devono essere rischi concreti e documentati, come il visibile e respirabile fumo passivo e non un virus che non si sa se c’è in quel preciso momento ed in quel luogo e chi ha eventualmente infettato, soprattutto in attività a rischio generico e non biologico ed ecco perché si parli di REPARTI INFETTIVI con certificazione del virus patogeno. Non ci si può basare sul pregiudizio calunnioso che siamo tutti untori a prescindere visto che la scelta del DPI appropriato deve essere effettuata dall'utente finale, ovvero dal datore di lavoro o dal responsabile della sicurezza sul posto di lavoro, dopo avere effettuato una corretta valutazione del rischio. Per l’appunto un conto è prevedere l’obbligo alla malattia (INPS) per i lavoratori visibilmente malati e non in condizione di lavorare, un altro mettere in pericolo la salute di tutti i lavoratori sani (INAIL), in assenza di qualsiasi sintomo non legittimata da un’ordinanza non conforme che, per assurdo, potrebbe proprio mettere in pericolo la loro sicurezza sul luogo di lavoro violando il D.Lgs 81/80 stesso. In base alle valutazioni appena esposte risulta chiaro che il Ministero della Salute non possa obbligare di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie né ai lavoratori, né agli utenti e né ai visitatori delle strutture sanitarie , strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali, comprese le strutture di ospitalità e lungodegenza, le residenze sanitarie assistenziali, gli hospice, le strutture riabilitative, le strutture residenziali per anziani, anche non autosufficienti, all'interno dei reparti che ospitano pazienti fragili, anziani o immunodepressi, specialmente se ad alta intensità di cura, identificati dalle direzioni sanitarie delle strutture sanitarie stesse. Quindi non può obbligare né lavoratori/dipendenti ma nemmeno cittadini come utenti/visitatori/accompagnatori neanche se fosse dichiarata un’emergenza epidemica conclamata.
Da quasi 5 anni di gestione dell’emergenza epidemica di Covid-19 che ha colpito la nostra Nazione, con azioni più o meno discutibili, ci prendiamo il diritto, come Cittadini Italiani, cioè l'elemento personale dello Stato che trova nell'ordinamento italiano la propria sovranità nell'articolo 1 della Costituzione, di esercitare il potere della contestazione dovuta ad una compressione permanente dei nostri diritti costituzionali e della propria sfera soggettiva. Quindi come cittadini consapevoli e lucidi, una parte del Corpo Elettorale, considerato vero e proprio organo dello Stato e parte attiva del Popolo, che in questo particolare momento storico non si trova rappresentato da nessun partito politico presente, né maggioranza né opposizione, siamo spinti a gestire una democrazia diretta e non più delegata. La politica riguarda tutti i soggetti facenti parte di una società, e non esclusivamente chi fa il politico di professione, ed è anche l'occuparsi in qualche modo di come venga gestito lo Stato. È utile sottolineare come, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale n. 3/2001), i Cittadini e lo Stato non siano più portatori di interessi “opposti e configgenti” ma diventino collaboratori in un clima di cooperazione ed in sinergia di azioni per il miglioramento e lo sviluppo della società. "Politica" significava l'amministrazione della "polis" per il bene di tutti, la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano. In tal senso "fa politica" anche chi, subendone effetti negativi ad opera di coloro che ne sono istituzionalmente investiti, si permette di contestare in varie forme lecite. La diffida è solo una di quelle perché l'istituto dell'autotutela rappresenta il dovere del cittadino di contestare ed il potere dell'amministrazione di annullare autonomamente o revocare parzialmente ogni atto lesivo ed illecito.
Tutto ciò premesso e considerato
DIFFIDO
Il Direttore Generale dott. Xxxxx ed il Direttore Sanitario dott. xxxx, e li invito ad interrompere qualsiasi azione perseguibile in probabile violenza privata che sia impedirmi l’accesso alle strutture sanitarie di vostra competenza oppure di violarmi il diritto di essere curato senza subire minacce. Vi chiedo inoltre, per poter procedere alla vostra valutazione di applicare l’imposizione di mascherine/tamponi, di valutare invece la normativa vigente che è molto complessa ma merita un approfondimento anche come nuova valutazione dell'interesse pubblico originario. Spetta alla pubblica amministrazione protocollare l’atto e rispondere entro i termini di 30 giorni, se non ci sono motivi oggettivi di ritardo, per non innescare omissione d’atti d’ufficio. Con l’occasione porgo i miei più distinti saluti.
Firma
Xxxxx xx
Allegati:
- documento d’identità al posto della firma digitale
DIFFIDA MASCHERINE/TAMPONE PDF
(Questo documento è di proprietà di Alessandra Ghisla - consulente con studi di diritto - che ne permette la condivisione con citazione della fonte)
Alla CA Direzione Aziendale xxxx
Direttore dott. Xxxxx
Direzione Sanitaria xxx
Direttore dott. Xxxxx
PEC: xxxxxxxxxxx
Ministero della Salute
Ministro Orazio Schillaci
Email/PEC: seggen@postacert.sanita.it
Ufficio Legislativo Ministero della Salute
Capo e Vice Capo Dott. Vampa Rocco
Email: segr.legislativo@sanita.it
OGGETTO: DIFFIDA IMPOSIZIONE MASCHERINA FFP2 E/O TAMPONE NON DIAGNOSTICO COVID-19
Il/La sottoscritt xxxx xxxx, nat il 29/01/1900 a xxx (xx), residente a xxxxxxx (xx), in via xxxxx nr.00, CF. xxxxxxxxxx intende esercitare il proprio diritto e formula la presente diffida per significare quanto segue:
Per noi la procedura corretta e formale è PEC/Raccomandata ma nessuno vi vieta di usare la Email oppure la PEC di altri perchè quello importante è il protocollo d’ufficio e non il modo di invio. Basta iniziare l’istanza con:
In base all’Articolo 45 - D.Lgs. 82/2005 (Codice dell'Amministrazione Digitale) – dove vien detto che: “1. I documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o informatico, idoneo ad accertarne la provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale”, il/la sottoscritt xxxx xxxx, nat il 00/00/1900 a xxxxx (XX), residente a xxxxxx (XX), in via xxxxx nr.0, CF. ABCDEF00C00C123A intende esercitare il proprio diritto nell’utilizzare qualsiasi mezzo telematico come la PEC di xxxxx oppure la mia Email e formula la presente diffida per significare quanto segue:
(In data 00/00/2024 mi sono recato presso la struttura… raccontate in breve la vostra esperienza negativa con imposizione tampone/mascherina)
PREMESSO CHE
In data 27 dicembre 2023 è stata emessa un’ordinanza del Ministero della Salute (GU n. 302 del 29-12-2023) con titolo: “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’epidemia da COVID-19 concernenti l’utilizzo dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie” dove vengono prorogate fino al 30 giugno 2024 le disposizioni della precedente ordinanza del ministero della Salute del 28 aprile 2023 (GU n. 100 del 29-04-2023) con titolo: “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'epidemia da COVID-19 concernenti l'utilizzo dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie” dove, all’art. 1 possiamo leggere: “Art. 1 comma 1. Per le motivazioni in premessa, E’ FATTO OBBLIGO di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie ai lavoratori, agli utenti e ai visitatori delle strutture sanitarie all'interno dei reparti che ospitano pazienti fragili, anziani o immunodepressi, specialmente se ad alta intensità di cura, identificati dalle direzioni sanitarie delle strutture sanitarie stesse. L'obbligo è esteso ai lavoratori, agli utenti e ai visitatori delle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali, comprese le strutture di ospitalità e lungodegenza, le residenze sanitarie assistenziali, gli hospice, le strutture riabilitative, le strutture residenziali per anziani, anche non autosufficienti, e comunque le strutture residenziali di cui all'art. 44 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 gennaio 2017[…]Comma 2. Nei reparti delle strutture sanitarie diversi da quelli indicati al comma 1 e nelle sale di attesa, la decisione sull'utilizzo di dispositivi di protezione delle vie respiratorie da parte di operatori sanitari e visitatori resta alla discrezione delle direzioni sanitarie, che possono disporne l'uso anche per tutti coloro che presentino sintomatologia respiratoria.” Mentre sempre all’art. 1 dell’ordinanza ministeriale del 28 aprile 2023 troviamo: “5. La decisione sull'esecuzione di tampone diagnostico per infezione da SARS-CoV-2 per l'accesso ai Pronto soccorso è rimessa alla discrezione delle direzioni sanitarie e delle autorità regionali. Si rammenta infatti che non sussiste obbligo a livello normativo dal 31 ottobre 2022, in quanto l'art. 2-bis «Misure concernenti gli accessi nelle strutture sanitarie e socio-sanitarie» del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52, come modificato dall'art. 4, comma 1 lettera b) del decreto-legge 23 luglio 2021, n. 105, decreto-legge 23 luglio 2021, n. 105, e' stato abrogato dall'art. 7-ter, comma 2, decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199”.
In data 01 luglio 2024 l’ordinanza in questione ha cessato i suoi effetti ed il Ministero della Salute ha comunicato a tutte le direzioni sanitarie territoriali una circolare ministeriale 0019544-01/07/2024 con OGGETTO: "RACCOMANDAZIONI sull'utilizzo dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie nelle strutture sanitarie per la protezione dalle infezioni virali acute.", dove viene indicato: “Con la presente circolare SI RACCOMANDA ai Direttori Sanitari delle succitate strutture, in quanto titolari delle funzioni igienico-sanitarie, di valutare l’opportunità di disporre l'uso dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie nei propri contesti, tenendo conto della diffusione dei virus a trasmissione aerea, delle caratteristiche degli ambienti nonché della tipologia di pazienti, lavoratori o visitatori che li frequentano, in funzione del livello di rischio di infezione e/o trasmissione (ad esempio in presenza di sintomatologia respiratoria o in considerazione della stagionalità) e del potenziale di sviluppo di malattia grave in caso di esposizione”.
CONSIDERATO CHE
Nessuno vuole negare che il popolo italiano sia stato colpito da un virus, il Sars Cov-2, che ha portato alla patologia chiamata Covid-19. Come nessuno può permettersi di negare le persone che hanno subito gravi complicanze che hanno portato anche a numerosi decessi, anche se la sua gestione è unica nel Mondo, Europa compresa. La disamina non è certamente sull’emergenza subita ma sull’operato del Governo per fronteggiarla e l’ordinanza come la circolare ne sono un esempio lampante. Se possiamo dire che l’emergenza sanitaria sia stata empiricamente rilevabile, la stessa cosa non si può dire a livello giuridico su un’emergenza epidemica che pandemica, ambito nel quale ci sono state delle importanti carenze che hanno portato a gravi soprusi illeciti ed illegittimi. Un regolamento aziendale (anche sanitario) DEVE essere comunque conforme a Legge e la direzione sanitaria dovrebbe ricordare che tutti dovrebbero avere un generale dovere di conoscenza della normativa vigente, necessariamente strumentale rispetto al dovere primario di osservanza della legge stessa, la quale oltretutto in questo momento manca. Ogni direzione sanitaria dovrebbe sapere che è solo la Legge conforme che pone obblighi e divieti ai cittadini e non ne ha potere personale e discrezionale. Seppur il Ministero della Salute ponga delle raccomandazioni e di valutare l’opportunità di disporre l’obbligo di tamponi e mascherine, ogni imposizione obbligatoria è perseguibile sia al civile che al penale. L’unica valutazione possibile è NON applicare nessun obbligo che non sia conforme a Legge e Costituzione. Il rispetto di tutte le norme da parte di tutti garantisce già di per sé una certa qualità di vita, quando però qualcuno a qualsiasi livello gerarchico non rispetta qualche principio, non si può sapere quale catena di eventi e reazioni potranno derivare. In poche parole, se le premesse alla base di un fatto sono errate, le conseguenze possono essere inimmaginabili, a danno di molti. La tutela dei nostri diritti, perché vi sono diritti e doveri di tutti, è fondamentale e basilare, soprattutto in situazioni dove rischiamo di incorrere in negligenza, imperizia, imprudenza. L’arbitrio, l’anarchia, l’omertà, il menefreghismo, l’indifferenza e l’ignoranza devono sempre essere combattuti, serenamente, a testa alta da tutti. In base all’articolo 51 c.p. risulta chiaro che: “Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo. Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine” e questa diffida permette più che una discussione sulla lapalissiana nullità dell’ordinanza/circolare.
In più la valutazione di applicare mascherine e tamponi porta anche alla responsabilità contrattuale verso i cittadini italiani. Molti credono che in Italia la sanità sia gratuita, invece è finanziata da soldi pubblici, pagati da ogni cittadino italiano maggiorenne, un po’ come l’assicurazione dell’automobile. Tutti la sottoscrivono ma non tutti poi la utilizzano. Sia per una visita dal medico che una prestazione sanitaria od ospedaliera con ricovero, secondo l’orientamento maggioritario, la responsabilità ascrivibile in capo all’ente ospedaliero è di tipo contrattuale, risultando essa fondata sul cd. contratto di spedalità, ossia il contratto in forza del quale la struttura sanitaria si obbliga a fornire al paziente una complessa prestazione di assistenza sanitaria (consistente nella predisposizione degli spazi necessari, di personale sanitario sufficiente ed efficiente e di attrezzature e macchinari adeguati). Ricondotta l’obbligazione della struttura sanitaria al contratto di spedalità, la giurisprudenza configurava la relativa responsabilità civile come contrattuale ex artt. 1218 c.c. e ss, il quale dispone testualmente che "il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l'inadempimento o il suo ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile". Si parla di inadempimento contrattuale e risarcimento del danno nell’ipotesi in cui, nell’ambito di un contratto tra due parti, la prestazione non sia eseguita da parte di uno di esse al momento dovuto, nel luogo dovuto o secondo le modalità̀ convenute. L’inadempimento all’obbligazione, pertanto, deve essere desunto non già semplicemente dal mancato raggiungimento del risultato, bensì dalla diligenza richiesta ai fini dell’esecuzione della prestazione professionale. La diligenza deve essere valutata con riguardo alla natura dell’attività esercitata (ai sensi dell’art. 1176 c.c.) dove si legge che il debitore "nell'adempiere l'obbligazione deve usare la diligenza del buon padre di famiglia", e si intende che il debitore è obbligato ad osservare una condotta conforme allo standard di riferimento. Pena l'inadempimento e, al tempo stesso, la colpa. L'art. 1453 c.c. dispone che "nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno". Naturalmente resta fermo che se non interessata allo scioglimento del contratto la parte adempiente può attivarsi per far chiedere il rispetto delle condizioni contrattuali. “In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione assistenziale, l’onere di provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa imprevedibile, inevitabile e non imputabile alla stessa sorge solo ove il danneggiato abbia provato la sussistenza del nesso causale tra la condotta attiva od omissiva dei sanitari e il danno sofferto (Cass.Civ. sez. III, 26/07/2017 n. 18392).
Seppur la motivazione edotta sia quella di “proteggere gli altri pazienti od i fragili”, la Struttura Sanitaria dovrebbe comunque già utilizzare il “Protocollo operativo per la prevenzione e il contenimento delle infezioni ospedaliere” ma anche la “Procedura isolamento pazienti con patologie contagiose”, la quale propone di applicare, a scopo di prevenzione primaria, le misure precauzionali dettate nelle Linee Guida delle principali organismi scientifici internazionali (Center for Disease Control and Prevention - CDC). Anche se ci si riferisse alle politiche di gestione del rischio, volte sia alla prevenzione degli errori evitabili che al contenimento dei loro possibili effetti dannosi, e, quindi, in ultima analisi, alla garanzia della sicurezza dei pazienti, queste costituiscono il sistema di gestione del rischio clinico (Clinical Risk Management) ma che non comporta obbligo di trattamenti od esami di nessun tipo. L’applicazione di tali misure appare cruciale per l’approccio al contenimento delle infezioni in ambiente ospedaliero ma che riguardi tutto il personale sanitario, sull’applicazione dei DPI da Dlgs 81/08, cioè trattasi di sicurezza sui luoghi di lavoro. Piuttosto di interrompere illecitamente il percorso di cura dei pazienti, i quali potrebbero giustamente rifiutare mascherina o tampone, si può optare per proporre una camera singola, oppure assieme ad un altro paziente del quale NON si conosce l’esito del tampone naso-faringeo. Ove disponibile, si può preferire stanze con opportuno ricambio d’aria (da 6 a 12 ricambi/ora) con assenza di ricircolo nelle aree circostanti dell’aria estratta. In caso contrario si devono aprire le finestre tutte le volte che è possibile per favorire il ricambio dell’aria. Anche per la mascherina il Protocollo sulle Malattie infettive è chiaro. Qualora il paziente dovesse essere spostato dalla stanza, bisogna fargli indossare se possibile una mascherina chirurgica, non tutto il tempo della degenza. Ed ecco che il contenimento e la gestione dell’epidemia Covid-19 trova la sua legittimità e la sua corretta applicazione nella già ampia e dettagliata normativa vigente, senza eccedere sul corpo dei cittadini.
VISTO CHE
Le direzioni sanitarie come il Ministero della Salute od il Governo, non può obbligare i cittadini in questioni che non può regolamentare come lo sono le mascherine sulla popolazione od il tampone naso-faringeo, dato che oltretutto quest’ultimo sia un esame medico non diagnostico che necessita di consenso informato da parte del paziente, come lo sono anche le vaccinazioni come trattamento farmacologico preventivo, e non è possibile per le direzioni sanitarie renderlo obbligatorio per gravissime non conformità con le disposizioni di Legge nazionali e sovranazionali. E’ ormai indiscusso che la Legge n. 145 del 28 marzo 2001, con la ratifica della Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, ha introdotto nel nostro paese la regola generale secondo la quale ogni paziente debba dare un consenso libero e informato: “Capitolo II – Consenso - Articolo 5 – Regola generale “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”, abrogando tacitamente OGNI obbligo sanitario, vaccinazioni comprese. Il 29 ottobre 2004 si è svolta a Roma la cerimonia della firma del Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa. Hanno firmato la Costituzione i capi di Stato o di governo dei 25 paesi dell'Unione europea e i loro ministri degli esteri dove all’articolo II-63 troviamo: “Diritto all'integrità della persona - 1. Ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psichica; 2. Nell'ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge. Con la Legge n. 219 del 2017, ha inoltre imposto che il consenso informato, sia esso verbale o scritto, debba essere inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico e non fa distinzioni tra i vari trattamenti ed esami dove anche le vaccinazioni sono veri e propri trattamenti farmacologici preventivi, infatti sul foglietto illustrativo troviamo “farmaco iniettabile esclusivamente da personale medico” e regolamentati dalla stessa dove leggiamo: “Art. 1 comma 3. Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi” dove “Comma 5. Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso”. Per essere LIBERO il consenso deve pertanto essere esente da vizi, coercizioni, inganni, errori, pressione psicologica al fine di influenzare la volontà del paziente. Proprio nella recente Legge 219/2017 possiamo leggere all’articolo 1: “1. La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge” ed inoltre: “2. E' promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la responsabilità del medico. Contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l'equipe sanitaria”. Questa regola fa risaltare l’autonomia del paziente nel suo rapporto con i professionisti sanitari e porta a diminuire quegli approcci che ignorerebbero la volontà del paziente. Il paziente deve ritenersi libero di rifiutare in tutto od in parte qualsiasi protocollo medico-ospedaliero. Dunque “si ritiene tramontata la stagione del “paternalismo medico e di Stato” in cui il sanitario si sentiva, in virtù del mandato da esplicare nell’esercizio della professione, legittimato ad ignorare le scelte e le inclinazioni del paziente, ed a trasgredirle quando fossero in contrasto con l’indicazione clinica in senso stretto”. Il consenso del paziente deve formarsi liberamente ed essere immune da violenza, dolo, errore; esso non deve essere contrario all’ordine pubblico o al buon costume. “Il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla libertà di curarsi liberamente espressa dalla persona(…). In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona (Art. 34, 1° e 4° comma Codice di Deontologia Medica)”. “Il medico è obbligato a rispettare la volontà del paziente, senza indagarne le motivazioni ma promuovendo comunque l’adesione alla proposta terapeutica (Cass., sez. IV, 27 marzo 2001, Cicarelli). Il medico, anche vaccinatore, davanti alla piena capacità di intendere e di volere del paziente, deve: “Art. 1 comma 6 - 6. Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale[…]”, ed inoltre: “Art. 1 comma 5 – […]Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l'accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. In più nel Codice Deontologico del Medici si legge chiaramente: “Art. 17 Rispetto dei diritti del cittadino - Il medico nel rapporto con il cittadino deve improntare la propria attività professionale al rispetto dei diritti fondamentali della persona”. La Corte di Cassazione in merito all’onere dell’acquisizione del consenso informato previsto dalla legge n.219/2017, ha stabilito che è un dovere proprio di chi prescrive ed effettua la prestazione sanitaria acquisire personalmente il consenso informato, il medico in rapporto alla responsabilità specifica di propria diretta competenza dell’intervento proposto. (Cass.sez Civile III° n.29709/2019, n.28985/2019 e ord.n.16892/2019). Ai sensi dell’art. 27 del codice penale la responsabilità è personale. Quindi non può essere delegato a terzi un compito proprio preliminare alla propria prestazione, come è l’acquisizione del consenso informato per un atto medico. L’art.35 del codice deontologico medico 2014 afferma: L’acquisizione del consenso informato o del dissenso è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, “non delegabile”. L’art. 1, comma 2, della legge n.219/2017, in merito alla relazione di cura e fiducia tra paziente e medico, afferma che nel consenso informato si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, autonomia e responsabilità professionale del medico. Lo stesso comma 2 specifica che “contribuiscono” alla relazione di cura in base alle rispettive competenze gli esercenti una professione sanitaria che compongono un’equipe sanitaria. Pertanto è di chiara evidenza che le informazioni fornite al paziente dall’equipe sanitaria sono solo integrative e non sostitutive di quelle dovute dal medico per l’acquisizione di un valido consenso informato all’atto medico. Il codice civile all’art. 12 (interpretazione della legge) afferma: nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Il medico acquisisce in forma scritta e sottoscritta o “con altre modalità di pari efficacia documentale” il consenso o il dissenso del paziente. Un modulo generico somministrato da terzi anche se sottoscritto di per sé non costituisce prova di un valido consenso acquisito, ma è necessario che sia integrato da spiegazioni dettagliate in un colloquio diretto col medico (Cass. Sez.Civ. III° n.23329/2019, n.19220/2013, n.24791/2008; Tribunale Pordenone n.852/2010). Il Consenso informato è un atto precontrattuale in cui si forma e si orienta la volontà dell’assistito e in cui le parti sono tenute ad operare in buona fede (art. 1377 CC) nel rispetto dei diritti tutelati dagli artt. 2, 13, 32 della Costituzione (Corte Cost. n.438/08). Il trattamento contro la volontà dell’assistito configura una responsabilità penale a carico del sanitario (Cass. sez. Pen. V° n.38914/2015 e n.50497/2018). In tema di responsabilità sanitaria la dimostrazione dell’assolvimento dell’obbligo (di avere posto il paziente nelle condizioni) di prestare il consenso informato, che si qualifica quale obbligo contrattuale ex articolo 1218 del codice civile grava sulla struttura ospedaliera. La violazione di tale obbligo ha potenzialmente rilievo a prescindere dall’esito favorevole o meno della prestazione medica, in quanto in grado di incidere sulla capacità di autodeterminazione del paziente. La dimostrazione – invece – di un nesso causale tra la lesione del diritto di autodeterminazione e danno effettivamente subito, spetta al paziente, rientrando tale elemento tra gli oneri in capo all’attore qui dicet (Cass. Sez.Civ. III n. 21/06/2018 n. 16324). La centralità del diritto all’autodeterminazione porta il Tribunale a sottolineare un passaggio centrale della pronuncia della Corte di Cassazione Penale SS.UU.2 n. 2437/2008 (c.d. Giulini), ossia che: “il presupposto indefettibile che giustifica il trattamento sanitario va rinvenuto nella scelta, libera e consapevole della persona che a quel trattamento si sottopone” con la conclusione che “in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona". Ferma restando, dunque, la sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato in corpore vili "contro" la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata. Detta pronuncia della Suprema Corte pone al centro dell’esperienza sanitaria il paziente che, in quanto individuo cui la Costituzione riconosce diritti inviolabili, ha la legittima aspettativa di vedere tutelati i valori che caratterizzano la propria persona. Per questo motivo il medico deve desistere “dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”, anche qualora l’esito possa rivelarsi infausto per lo stesso. Fra l’altro la Corte riconosce espressamente che questa volontà possa essere anche “indirettamente” manifestata.
Obbligare al tampone, come a qualsiasi altro esame o trattamento, potrebbe essere violenza privata ed un trattamento non necessario potrebbero esporre il paziente a rischi inutili, il tampone naso-faringeo non viene reputato pericoloso ma lo è la procedura che richiederebbe anche uno specialista. Se fosse di vitale importanza, per non essere in eccesso si può tranquillamente chiedere il consenso per una ricerca sugli anticorpi con le analisi del sangue, se già previste per l’intervento. Bisogna avere molto chiaro che una cura o un esame non motivato, anche il meno invasivo, per il cittadino è un inutile rischio per la salute dove anche tutti gli esami possono dare esiti sbagliati. Sia perché non identificano un disturbo (falsi negativi), sia perché lo identificano quando non c’è (falsi positivi). Questo può creare una catena di conseguenze dannose: nel caso dei falsi positivi, ad esempio, una serie di nuovi esami inutili, con tutte le ansie, i rischi e le spese conseguenti. Un esame in eccesso potrebbe essere un guadagno per il fornitore ed un danno erariale per i cittadini se non un danno patrimoniale per il paziente. Nonostante che l’OMS abbia messo in guardia contro l’abuso mondiale dei test PCR, e sui cui risultati si basano però i dati ufficiali di una continua emergenza, la maggior parte dei governi e autorità (seppur non tutti, vedi p.e. la Svezia, il Florida e alcuni altri) continuano con questa pratica abusiva di non corretta applicazione dei test PCR. Ci sono Paesi come la Svezia e il Florida, che già da tanti mesi utilizzano il test PCR secondo le regole scientifiche, e cioè applicando dei valori di CT ragionevoli (mai sopra il 30), richiedendo ai laboratori la rigorosa indicazione di tale valore nelle comunicazioni del risultato e prevedono, comunque, la necessità della diagnosi clinica da parte del medico per determinare la sussistenza o meno di un effettivo caso positivo. In Italia e nella maggior parte dei paesi caratterizzati da una deriva autoritaria, alle persone testate non viene detto né quale tipo di test PCR viene applicato su di loro, né quale sia il valore di CT, cioè il numero di cicli di amplificazione che erano necessari per ottenere il risultato di laboratorio asseritamente positivo. Oltretutto se andiamo a leggere le istruzioni di alcune marche di tamponi rapidi possiamo leggere: “Test rapido per la rilevazione degli antigeni nucleocapsidici SARS-CoV-2 in campioni di tampone nasale anteriore. Solo per uso diagnostico in vitro. Per l'autotest. Il test rapido per l'antigene SARS-CoV-2 è un test a flusso laterale per la rilevazione qualitativa dell'antigene nucleocapside da SARS-CoV-2 in campioni di tampone nasale anteriore direttamente da individui sospettati di COVID-19 entro i primi sette giorni dall'inizio dei sintomi. Il test può essere usato per analizzare campioni di soggetti asintomatici. Non distingue tra SARS-CoV e SARS-CoV-2. I risultati riguardano l'identificazione dell'antigene di SARS-CoV-2. Tale antigene si riscontra generalmente nei campioni prelevati dal tratto respiratorio superiore durante la fase acuta dell'infezione. I risultati positivi indicano la presenza di antigeni virali, ma per determinare lo stato dell'infezione sono necessarie l'anamnesi e altri diagnostici personali. I risultati positivi non escludono la presenza di infezioni batteriche o l'infezione simultanea con altri virus. L'agente patogeno rilevato potrebbe non essere la causa esatta della patologia. I risultati negatici ottenuti si soggetti con sintomi comparsi da oltre sette giorni dovrebbero essere trattati come probabili negativi. Se occorre, cercare la conferma attraverso un'analisi molecolare. I risultati negativi non escludono l'infezione da SARS-CoV-2. Il test antigenico rapido per SARS-CoV-2 è destinato all'uso come supporto per la diagnosi dell'infezione da SARS-CoV-2” dove, se cerchiamo SARS CoV troviamo: “Il coronavirus da sindrome respiratoria acuta grave, abbreviato in SARS-CoV o SARS-CoV-1 (dall'inglese Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 1), è un ceppo virale della specie SARS-related coronavirus, appartenente al genere dei Betacoronavirus, sottogenere Sarbecovirus. I Betacoronavirus (β-CoV) sono il secondo di quattro generi: alfa, beta, gamma e delta, della sottofamiglia Orthocoronavirinae nella famiglia dei Coronaviridae, dell'ordine Nidovirales. Si ritiene che i coronavirus causino una percentuale significativa di tutti i raffreddori comuni negli adulti e nei bambini. I sintomi che si riscontrano più frequentemente sono febbre e adenoidite acuta con maggior incidenza durante l'inverno e l'inizio della primavera. In molti casi i coronavirus possono causare polmonite, polmonite virale diretta o polmonite batterica secondaria; inoltre possono portare anche allo sviluppo di bronchite, bronchite virale diretta o bronchite batterica secondaria. I ceppi causa delle principali patologie che interessano l'uomo appartengono al genere Betacoronavirus. I coronavirus sono stati responsabili delle gravi epidemie di SARS del novembre 2002, di quella della MERS del 2012 e della pandemia di COVID-19 del 2020. Dato che nei tamponi rapidi troviamo scritto chiaramente: “I risultati positivi indicano la presenza di antigeni virali, ma per determinare lo stato dell'infezione sono necessarie l'anamnesi e altri diagnostici personali. I risultati positivi non escludono la presenza di infezioni batteriche o l'infezione simultanea con altri virus. L'agente patogeno rilevato potrebbe non essere la causa esatta della patologia” ed ecco forse risolto il mistero di chi si ammala più volte con positività a tampone, non si sa a cosa a questo punto, o del perché si sia ammalato anche chi vaccinato con tre /quattro dosi.
Ed è qui che si pongono seri dubbi sull’esercizio del potere di ordinanza e successiva circolare da parte del Ministero della Salute in ambito nazionale, visto che dovrebbe rispettare limiti più rigorosi e stringenti rispetto a quelle che consentono deroghe alla normativa primaria limitate ad un area territoriale. L’adozione da parte di un’amministrazione di una ordinanza in deroga alla Legge non può essere configurata come un illecito giustificato a posteriori, sulla base della constatazione dello stato di necessità. E’ prevista, al contrario, come originariamente lecita, nel rispetto dei canoni definiti dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n.8 del 19564: «efficacia limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell'urgenza; adeguata motivazione; efficace pubblicazione nei casi in cui il provvedimento non abbia carattere individuale; conformità del provvedimento stesso ai principi dell'ordinamento giuridico». Se vogliamo definire i poteri di ordinanza in emergenza epidemica dobbiamo guardare alla Massima Autorità Sanitaria territoriale, cioè il Sindaco, e li possiamo trovare nell’art. 1 del D.L. 25 marzo 2020, n. 19, convertito in Legge 22 maggio 2020, n. 35 che ha creato atti necessitati da parte del Governo, anche per non trovarsi con azioni illecite ed illegittime. In altri termini, presupposto per l’adozione dell’ordinanza sindacale extra ordinem è il pericolo per l’incolumità pubblica dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed indilazionabili, consistenti nell’imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato. E’ chiaro che il Sindaco possa applicare la quarantena a soggetti malati certificati (non basta la positività ad un tampone NON diagnostico per la patologia Covid-19) o più precisamente “contumacia” dove si intenda una misura sanitaria di isolamento che prevede l’obbligo di rimanere in ospedale o nella propria casa per un periodo definito dalle autorità sanitarie. È previsto per malattie altamente pericolose, contagiose e rare nel territorio di riferimento. Il sindaco può altresì chiudere tutte le attività pubbliche, private e lavorative ed invitare i cittadini a non muoversi se non per necessità, per creare una specie di coprifuoco, ma NON PUO’ OBBLIGARE NESSUNO all’uso della mascherina né chirurgica né FFp2 oppure ad un trattamento medico. E se non può il Sindaco non può nemmeno il Ministro della Salute dando possibilità ai Dirigente/Direttori di scelta se applicare o meno l’imposizione illecita. Questo perché uno dei principi cardini è quello della proporzionalità, che fa obbligo ad ogni autorità amministrativa di presceglier il mezzo meno gravoso a carico dei soggetti incisi, in modo tale che la salvaguardia dell’interesse pubblico sia effettuata con il minor sacrificio di quello privato. Sacrificio che non può essere un danno sulla salute se lo strumento indicato non è conforme od idoneo dal costruttore stesso per le mascherine, ed un trattamento medico non diagnostico ma che il paziente può rifiutare seppur necessario per la propria patologia.
Chiunque viva in Italia è ben conscio che il Governo ha già apposto come obbligatori dei Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) sui cittadini, ad esempio le cinture di sicurezza come il casco, per proteggerli individualmente ma, questi dispositivi, devono essere adeguati alla loro funzione, conformi a tutti i cittadini e devono avere un’attenta valutazione rischio/beneficio perché niente e nessuno può creare un danno ad un cittadino, neanche a fin del suo bene. Quando viene scritto che “è fatto obbligo di utilizzo dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie” oppure di rendere obbligatoria anche la sua raccomandazione è lapalissiano che si possa parlare esclusivamente di Dispositivi di Protezione delle vie respiratorie, i DPI delle vie respiratorie, definiti anche Apparecchi di Protezione delle Vie Respiratorie (APVR), che sono dispositivi destinati a proteggere da sostanze pericolose allo stato aeriforme (particelle, vapori, gas) mediante il meccanismo della filtrazione non si può parlare di sciarpina o di mascherine di comunità, di stoffa od altri materiali. Infatti oggi non si parla più di mascherine chirurgiche ma di FFp2. Appurato che non sono DPI le "mascherine chirurgiche" o "igieniche" sprovviste di filtro di cui alla norma UNI EN 14683, comunemente impiegate in ambito sanitario e nell'industria alimentare. Queste infatti appartengono alla categoria dei dispositivi medici (in genere) che, indicati dai Regolamenti (UE) 2017/745 e 2017/746 ed in base all’art. 15 della Legge 22 aprile 2021, n. 53, è in elaborazione l’atto di adeguamento della normativa italiana al dettato del regolamento per la disciplina degli aspetti di interesse sanitario, dalle indagini cliniche fino alle attività di sorveglianza post-commercializzazione, vigilanza e sorveglianza del mercato e si applica alla maggior parte dei prodotti reperibili sul mercato. Le mascherine chirurgiche non possano rientrare, per loro caratteristiche intrinseche, tra i dispositivi di protezione individuali o i dispositivi di protezione collettiva, ma che restino dispositivi medico chirurgici, come disposto da Regolamento 2017/745/UE e che solo il Medico di Medicina Generale od un medico Specialista può prescrivere ad un paziente che ne necessitasse per motivi di comprovata salute, anche per non violare l’Art. 5, Legge 22 maggio 1975 n. 152, mod. da Legge n. 533 dell’8 agosto 1977 e D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla L. 31 luglio 2005, n. 155 che cita testualmente che girare col volto mascherato è illegale ma non è reato. Per legge, per chi viola il divieto di comparire mascherato in un luogo pubblico è prevista la sanzione amministrativa da 10 a 103 euro. Solo la prescrizione medica omette l’obbligo di Legge e solo la prescrizione medica mette il datore di lavoro nelle condizioni di permettere al dipendente di indossare il DM consigliato. Le mascherine facciali di tipo chirurgico hanno lo scopo di evitare che chi le indossi contamini l’ambiente, in quanto limitano la trasmissione di agenti infettivi, e sono utilizzate in ambiente ospedaliero e in luoghi ove si presti assistenza a pazienti. Infatti anche nella GUIDA OPERATIVA PER L'APPLICAZIONE DELLE MISURE DI ISOLAMENTO PRESSO TUTTE LE STRUTTURE DI CURA SANITARIA con base del Ministero della Sanità Decreto 28.09.1990 - Norme di protezione dal contagio professionale da HIV nelle strutture sanitarie ed assistenziali pubbliche e private - dove si mira a migliorare la sicurezza delle cure sanitarie e fornire metodi per ridurre la trasmissione interpersonale di agenti patogeni noti e/o sospetti. L'isolamento in ambito ospedaliero può essere: spaziale che consiste nello spostamento del paziente in una stanza singola, con un bagno dedicato; di coorte che consiste nel collocare, nella stessa stanza, pazienti con la stessa infezione. La mascherina chirurgica viene definita: Dispositivo Medico atto a proteggere il paziente dall'esposizione ad agenti infettivi che colonizzano la bocca e/o il naso degli operatori sanitari. Le misure aggiuntive sono adeguate a prevenire la trasmissione per via aerea; droplet/goccioline; contatto diretto ed indiretto. Le Precauzioni basate sulla modalità di trasmissione (Precauzioni Aggiuntive) sono indicate per pazienti con infezione accertata, sospetta o per pazienti colonizzati da patogeni altamente trasmissibili o epidemiologicamente importanti per i quali sono necessarie, per interrompere la catena di trasmissione nei REPARTI INFETTIVI e dovrebbe essere confinato solo lì, come lo è sempre stato. In presenza di vero rischio biologico documentato.
In particolare, nel documento ex ISPESL “Criteri procedurali per la scelta e caratterizzazione dei Dispositivi di Proiezione Individuale per il rischio biologico in attuazione degli adempimenti del D.Lgs. 81/2008 e smi”, relativamente all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale per la protezione specifica delle vie respiratorie da agenti biologici, quali i facciali filtranti e i filtri da collocare sulle semimaschere e/o sulle maschere a pieno facciale, viene testualmente riportato: "I DPI per la protezione specifica delle vie respiratorie da agenti biologici, quali facciali filtranti e filtri da collegare sulle semimaschere o sulle maschere a pieno facciale, sono caratterizzati da una certificazione di Tipo emessa dall'Organismo Notificato che attesti la marcatura CE come dispositivo di protezione individuale in III categoria secondo la Direttiva 686/89 CE e attesti la protezione da agenti biologici del gruppo 2 e 3, ai sensi della Direttiva 54/2000 CE". Si ritiene utile precisare che la certificazione CE dei dispositivi di protezione individuale deve essere esclusivamente effettuata in conformità a quanto disposto dalla Direttiva 89/686/CEE, recepita in Italia con il Decreto Legislativo 475/92 e successive modifiche e integrazioni e che per questa certificazione possono essere utilizzate le norme armonizzate pubblicate nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea e riprese in quella italiana in quanto assicurano presunzione di conformità ai requisiti essenziali richiesti dalla direttiva europea. Occorre quindi evidenziare che l'uso dei dispositivi per la protezione delle vie respiratorie conformi alla norma europea armonizzata EN 149 e certificati CE ai sensi della Direttiva 89/686/CEE, è ritenuto idoneo anche per la protezione da agenti biologici aerodispersi in numerosi documenti sia nazionali (prodotti ad esempio dal Ministero della Salute e dallo stesso ex ISPESL) che internazionali (prodotti ad esempio dall'Organizzazione Mondiale della Sanità - WHO e dal NIOSH). Pertanto, ne deriva che solo i dispositivi di protezione delle vie respiratorie provvisti di certificazione CE di Tipo secondo la Direttiva 89/686/CEE possono essere liberamente commercializzati e che sarà compito del fabbricante dei dispositivi di protezione individuale dichiararne la conformità ai requisiti dall'Allegato II della direttiva succitata, dopo che sullo stesso è stato emesso da un Organismo Notificato un attestato di esame del Tipo conseguente a specifiche prove di laboratorio, fermo restando che l'utilizzo della norma europea armonizzata EN 149 assicura presunzione di conformità ai requisiti di cui all’Allegato II citato anche per quanto riguarda la protezione da agenti biologici. Stante quanto sopra esposto, si conclude che risultano idonei per la protezione da agenti biologici, in ambienti a rischio biologico ACCERTATO, sia i dispositivi di protezione delle vie respiratorie provvisti di certificazione CE di cui al Capitolo II della Direttiva 89/686/CEE, che attesti la protezione da agenti biologici dei gruppi 2 e 3 così come definiti nella Direttiva 2000/54/CE, sia quelli provvisti di certificazione CE di cui al Capitolo II della Direttiva 89/686/CEE, basata sulla norma europea armonizzata EN 149”. In presenza di contaminazioni elevate o di agenti biologici estremamente pericolosi come quelli di gruppo 4 (per es. virus delle febbri emorragiche), potrebbe essere necessario isolare completamente l'operatore dall'ambiente esterno impiegando autorespiratori che forniscono aria diversa da quella dell'ambiente di lavoro. In virtù del fatto che, in mancanza di una norma specifica, sono riconosciute valide le certificazioni di Tipo CE rilasciate da un Organismo Notificato, attualmente sono disponibili dispositivi per la protezione delle vie aeree dagli agenti biologici di gruppo 2 e 3, come DPI di III categoria che non rispondono alla norma UNI EN 149, ma sono dotati di certificazione di Tipo CE. Per le attività sanitarie (rischio biologico), veterinarie o di laboratorio e, comunque in presenza di pazienti, animali o campioni biologici potenzialmente infetti da microrganismi a trasmissione aerea responsabili di patologie gravi quali meningite, tubercolosi ecc., è raccomandato l'utilizzo di maschere intere con protezione P2, aventi capacità filtrante pari almeno al 95%, perdita di tenuta non superiore al 10% ed efficienza di filtrazione dei microrganismi del 94%. Nell'esecuzione di particolari procedure assistenziali che possono aumentare il rischio di dispersione nell'aria di secrezioni respiratorie (es. broncoscopie, aerosolterapie) è raccomandabile dotarsi di protezioni aventi efficienza filtrante P3. Se andiamo ad analizzare il protocollo per gli operatori sanitari con identificazione del rischio biologico, esposti a Covid-19, ci possiamo rendere facilmente conto del perché non è possibile utilizzare solo la chirurgica o FFp2, anche visitatori/accompagnatori/utenti. La selezione del tipo di DPI deve tenere conto del rischio di trasmissione di COVID-19 ed i DPI per la gestione di patologie ad alta contagiosità comprendono: Occhi/ Occhiali (DPI II cat.)-Occhiali a maschera (DPI III cat.); Occhi e mucose/Visiera (DPI III cat.); Vie respiratorie/Semimaschera filtrante-Semimaschera e quarti di maschera; Corpo/Indumenti di protezione (DPI III cat); Mani/Guanti monouso (DPI III cat); Arti inferiori/Calzari (DPI I, II, III cat.). Anche la procedura di vestizione e svestizione presenta delle sequenze precise per evitare il rischio di contagio. Nel rimuovere la mascherina FFp2 va assolutamente smaltita nel contenitore RSP-I (RIFIUTI SANITARI PERICOLOSI A RISCHIO INFETTIVO [RSP-I]) che mancano totalmente fuori le strutture socio-sanitarie.
Per comprendere meglio le imposizioni Covid19 sui luoghi di lavoro si deve tornare al 14 marzo 2020 quando viene redatto il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, con approfondimenti il 24 aprile 2020 ed il 6 aprile 2021, dove inizialmente “l’obiettivo del presente protocollo condiviso di regolamentazione è fornire indicazioni operative finalizzate a incrementare, negli ambienti di lavoro non sanitari, l’efficacia delle misure precauzionali di contenimento adottate per contrastare l’epidemia di COVID-19. Succedono anche altri due protocolli sulla stessa linea dove il COVID-19 rappresenta un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione. Il presente protocollo contiene, quindi, misure che seguono la logica della precauzione e seguono e attuano le prescrizioni del legislatore e le indicazioni dell’Autorità sanitaria”, dove viene fatto credere che riguardi tutte le attività ma che non trova riscontro nell’articolo 16 nel Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in Legge 24 aprile 2020, n. 27, con modificazione del DL 19 maggio 2020, n. 34 convertito in Legge 17 luglio 2020, n. 77 dove troviamo all’articolo 66: “Per contenere il diffondersi del virus COVID-19, fino al termine dello stato di emergenza di cui alla delibera del Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020, sull'intero territorio nazionale, per tutti i lavoratori e i volontari, sanitari e no (NO=dipendenti esterni che riguardano solo le attività a rischio biologico), che nello svolgimento della loro attivita' sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro (N.d.R. tra dipendenti), sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI), di cui all'articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio, il cui uso e' disciplinato dall'articolo 34, comma 3, del decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9”, ed anche nel decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 all’articolo 5 comma 8 troviamo: “Fino al 30 aprile 2022 sull'intero territorio nazionale, per i lavoratori, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI) di cui all'articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, le mascherine chirurgiche (DM). Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari”, dove si parla di mascherine CE (che NON possono essere DPI perché sono DISPOSITIVI MEDICI-DM) esclusive per i lavoratori, pubblici o privati che già predisponevano il filtrante facciale (APVR), dipendenti delle aziende a rischio biologico (materiale biologico) come lo sono le:
- Attività in industrie alimentari
- Attività nell'agricoltura
- Attività nelle quali vi è contatto con animali e/o prodotti di origine animale
- Attività nei servizi sanitari, comprese le unità di isolamento e post mortem
- Attività nei laboratori clinici, microbiologici, veterinari e diagnostici (nei laboratori di microbiologia sono presenti entrambi i rischi, quello potenziale e quello legato all'uso deliberato di microrganismi)
- Attività negli impianti di smaltimento rifiuti e di raccolta di rifiuti speciali potenzialmente infetti
- Attività negli impianti per la depurazione delle acque di scarico.
Per tutte le altre aziende (bar, ristoranti, uffici, fabbriche, scuole, palestre, piscine ecc. ecc.) il biorischio è già calcolato ma mai vengono applicati DPI specifici dato non vengano trattati né patogeni né liquidi biologici. Gli agenti biologici, definiti secondo il D.Lgs 81/2008, Titolo X come "qualsiasi microrganismo anche geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie, intossicazioni", sono stati classificati secondo un criterio di pericolosità tenendo conto delle condizioni prevalenti nell'area geografica presa in considerazione. Nel Decreto-Legge 7 ottobre 2020, n. 125 convertito con modificazioni dalla L. 27 novembre 2020, n. 159 troviamo all’Art. 4 - Attuazione della direttiva (UE) 2020/739 della Commissione del 3 giugno 2020, concernente l'inserimento del SARS-CoV-2 nell'elenco degli agenti biologici di cui e' noto che possono causare malattie infettive nell'uomo – al comma 1. “All'allegato XLVI del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, nella sezione VIRUS, dopo la voce: «Coronaviridae - 2» e' inserita la seguente: «Sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus 2 (SARS-CoV-2)(0a) - 3»; La Direttiva (UE) 2020/739 della Commissione del 3 giugno 2020 che modifica l’allegato III della direttiva 2000/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda l’inserimento del SARS-CoV-2 nell’elenco degli agenti biologici di cui è noto che possono causare malattie infettive nell’uomo e che modifica la direttiva (UE) 2019/1833 della Commissione, dove riassumiamo con “La direttiva 2000/54/CE, al di sopra delle Leggi ordinarie nazionali, stabilisce norme per la protezione dei lavoratori contro i rischi che derivano o possono derivare per la loro sicurezza e salute dall’esposizione agli agenti biologici durante il lavoro, ivi comprese norme per la prevenzione di tali rischi. Essa si applica alle attività in cui i lavoratori sono o possono essere esposti ad agenti biologici a causa della loro attività lavorativa e stabilisce, per qualsiasi attività che possa comportare un rischio di esposizione ad agenti biologici, le misure da adottare al fine di determinare la natura, il grado e la durata dell’esposizione dei lavoratori a tali agenti […] Tenuto conto delle prove scientifiche più recenti e dei dati clinici disponibili nonché dei pareri forniti da esperti che rappresentano tutti gli Stati membri, il SARS-CoV-2 dovrebbe quindi essere classificato come patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3 […] La direttiva (UE) 2019/1833 ha modificato anche gli allegati V e VI della direttiva 2000/54/CE, che stabiliscono le misure e i livelli di contenimento per i laboratori, i servizi veterinari e l’industria (aziende a rischio biologico)”. MAI si trova menzione delle “varianti” di Sars Cov-2 che, ad oggi, non sono regolamentate quindi giuridicamente irrilevanti per i cittadini e lavoratori ma che potrebbero, al massimo, interessare i reparti infettivi e l’ambiente sanitario.
Nel decreto-Legge 23 febbraio 2021, n. 15, all’articolo 1 troviamo: “Art. 1 -Denominazione del territorio nazionale in zone - 1 All'articolo 1 del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2020, n. 74, dopo il comma 16- sexies è aggiunto il seguente: «16-septies. Sono denominate: “Zona Bianca-Gialla-Arancione-Rossa” dove la competenza per la comunicazione della valutazione rischio per le aziende a rischio biologico spetta ESCLUSIVAMENTE a queste autorità:
- Ministero della Salute
- Istituto Superiore di Sanità (ISS)
- Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL)
- Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
- Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC)
Mai si menziona il Governo od il Parlamento. Comunicazione che poteva essere fatta anche tramite semplice circolare ministeriale dato riguardanti le aziende sanitarie ed ospedaliere di competenza del Ministero della Salute. Se si menziona l’art. 1 comma 16 del DL 16 maggio 2020, N. 33, come anche il DL 44/2021, entra in gioco non più un’emergenza epidemica ma una valutazione rischi da parte del Ministero della Salute che comporta i DVR Covid e le indicazioni alle aziende sanitarie ed ospedaliere (come veterinarie e RSA) subordinate a tale Ministero. Infatti al comma 16 troviamo: “Per garantire lo svolgimento in condizioni di sicurezza delle attività economiche, produttive e sociali, le regioni monitorano con cadenza giornaliera l'andamento della situazione epidemiologica nei propri territori e, in relazione a tale andamento, le condizioni di adeguatezza del sistema sanitario regionale. I dati del monitoraggio sono comunicati giornalmente dalle regioni al Ministero della salute, all'Istituto superiore di sanità e al comitato tecnico-scientifico di cui all'ordinanza del Capo del Dipartimento della protezione civile del 3 febbraio 2020, n. 630, e successive modificazioni. In relazione all'andamento della situazione epidemiologica sul territorio, accertato secondo i criteri stabiliti con decreto del Ministro della salute del ((30 aprile 2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 112 del 2 maggio 2020,)) e sue eventuali modificazioni, nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020, la Regione, informando contestualmente il Ministro della salute, può introdurre misure derogatorie, ampliative o restrittive, rispetto a quelle disposte ai sensi del medesimo articolo 2”. Il colore bianco/verde, giallo, arancione e rosso indica, tramite segnalazioni delle ASL, le 4 categorie di rischio, dichiarate dal Ministero della Salute, che non colpiscono le attività a rischio generico ma si riferiscono in modo specifico solo alle aziende sanitarie/ospedaliere che NON chiudono ma applicano DPI in base al rischio:
- Scenario 1 (bianco o verde) – Zone nelle quali non siano presenti, nell’intera provincia, conclamati casi - Bassa probabilità di diffusione del contagio
- Scenario 2 (giallo) – Zone nelle quali siano presenti, nella provincia, conclamati casi - Media probabilità di diffusione del contagio
- Scenario 3 (arancione) – Zone a ridosso delle ZONE ROSSE (Comuni che hanno dichiarato lo Stato di Emergenza) ovvero nelle quali siano presenti, nelle limitrofe città, conclamati casi - Elevata probabilità di diffusione del contagio
- Scenario 4 (rossa) – Zone ROSSE (Comuni che hanno dichiarato lo Stato di Emergenza) nelle quali siano presenti, nella medesima città della sede di lavoro, conclamati casi -Molto elevata probabilità di diffusione del contagio
Resta indiscusso che la dichiarazione di “Stato di Emergenza”, pubblicata sull’Albo Pretorio, da parte dei Comuni SIA OBBLIGATORIA proprio per identificare le “Aree Rosse”. La normativa regionale, ovviamente, si articola nell’alveo di quella nazionale, la quale prevede atti necessitati, sempre ricollegandosi al Codice della Protezione Civile aggiornato con D.lgs. 1/2018. Infatti in seguito alla chiamata di pandemia da Covid-19 si è evidenziata l’importanza di capire quali attività lavorative avrebbero dovuto aggiornare il Documento della Valutazione dei Rischi (DVR), ossia il documento obbligatorio ai sensi del D.lgs. 81/08 e che tutti i datori di lavoro devono redigere per la valutazione dei rischi e dei pericoli per realizzare la protezione della salute e della sicurezza. Come è noto, in questo decreto al capitolo X Art.266 si parla di rischio di esposizione ad agenti biologici e in particolare “a tutte le attività lavorative nelle quali vi è un rischio di esposizione ad agenti biologici”. Dunque, tra le causali da cui deriva l’obbligo di rielaborazione del DVR non sono indicate circostanze ambientali estranee ai rischi specifici aziendali come è una epidemia. Di fronte alla comparsa di un rischio biologico generico che minaccia la salute pubblica spetta alle pubbliche autorità – disponendo esse istituzionalmente dei necessari strumenti (competenze scientifiche e poteri) – rilevarlo, darne comunicazione, indicare le misure di prevenzione e farle osservare, appunto tramite i colori bianco/verde, giallo, arancione, rosso. Ad esse, comunicate dal Ministero della salute, il datore di lavoro si dovrà adeguare, dovendo ovviamente rispettare il precetto generale, senza che per questo debba stravolgere il proprio normale progetto prevenzionistico in azienda. Tali misure si affiancheranno provvisoriamente – per la durata della fase di emergenza – a quelle ordinarie, conservando la propria distinta natura e funzione. Infine, anche l’Ispettorato del lavoro ha sottolineato nella nota 89/2020 “come rispetto a tali obblighi, non sia riconducibile all’attività del datore di lavoro ma si concretizzi in una situazione esterna e che sono dinamiche esterne non controllabili dal datore di lavoro. In tali casi il datore di lavoro non sarebbe tenuto ad aggiornare il DVR in quanto trattasi di un rischio non riconducibile all’attività e cicli di lavorazione e, quindi, non rientranti nella concreta possibilità di valutarne con piena consapevolezza tutti gli aspetti gestionali del rischio, in termini di eliminazione alla fonte o riduzione dello stesso, mediante l’attuazione delle più opportune e ragionevoli misure di prevenzione tecniche organizzative e procedurali tecnicamente attuabili. Diverso è il caso degli ambienti di lavoro sanitario o sociosanitario o qualora il rischio biologico sia un rischio di natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell’azienda”. Se anche il datore di lavoro avesse aggiornato il DVR sul Covid-19, il D.lgs. 81/08 non indicava niente di più di quello già previsto per la professione in oggetto e dei suoi dipendenti. La direzione sanitaria non può obbligare i cittadini come utenti/visitatori ma anche pazienti all’applicazione del D.lgs 81/08 che, in base al Covid-19 ha solamente inserito il Sars Cov-2 nel biorischio 3. Per Gruppo di rischio 3 si intende: elevato rischio individuale, basso rischio collettivo. In questo gruppo sono presenti tutti gli agenti patogeni che causano gravi malattie nella singola persona e hanno una bassa-moderata probabilità di diffondersi nella comunità. Tra questi ricordiamo il virus dell’epatite C, il virus dell’epatite B, il virus dell’immunodeficienza umana, il Mycobacterium tuberculosis ed il SARS CoV-2. Detto questo i DPI sono già predisposti e riguardano SEMPRE le aziende a rischio biologico e non generico.
CONSIDERATO CHE
Le direzioni sanitarie probabilmente credeno di applicare una indicazione conforme, come potrebbe essere quella anti fumo (Legge Sirchia 2003 “Tutela della salute dei non fumatori”) ed è lapalissiano che possano impedire l’accesso sia ai cittadini che ai dipendenti con la sigaretta in bocca e quindi creda, allo stesso modo, di poter impedire l’accesso ai cittadini che dipendenti senza mascherina. Ma il datore di lavoro fa rispettare una Legge in tutela di tutti quelli che potrebbero respirare il fumo passivo. Collabora come quando chiama le FdO se all’interno della sua attività ci fossero azioni criminose. Lui ha la competenza della tutela della salute dei suoi lavoratori sui luoghi di lavoro e di evitare incidenti, infortuni ed eventuali malattie professionali ma riconducibili alla propria professione. Niente altro. Ma è qui che si chiede l’esercizio del pensiero critico perché non è la stessa cosa. Gli effetti sulla salute del fumo passivo sono ben più gravi di quanto si pensasse. Il fumo passivo contiene infatti più di 50 sostanze cancerogene, che vengono inalate dai non fumatori quasi nelle stesse quantità che assorbe chi fuma. E poiché l’organismo dei bambini e degli adolescenti è ancora in via di sviluppo, sono proprio i più piccoli i più vulnerabili rispetto agli effetti del fumo passivo, infatti il divieto è anche previsto nelle dimore private come in macchina. L’esposizione a fumo passivo può essere facilmente evitabile con ambienti completamente liberi da fumo (“smoke free”) che costituiscono soluzioni semplici, testate ed efficaci per la prevenzione dei danni da fumo. Anche i sistemi di ventilazione più sofisticati, infatti, non possono eliminare completamente il fumo passivo: solo gli ambienti smoke-free assicurano una protezione totale ai non fumatori. Ecco perché impedire l’accesso ai luoghi pubblici come anche nelle dimore private, agli strumenti che creano fumo passivo nocivo, e non ai fumatori a prescindere, è corretto e conforme. Ma qui allora vanno chiariti e divisi i due concetti. Od è un DPI per la propria sicurezza personale od una specie di TSO (dispositivo medico imposto) per tutelare la salute degli altri. Costituzionalmente si può dire che il sacrificio dell’autodeterminazione di ciascuno si giustifica proprio e solo in presenza di rischi per gli altri. Ma devono essere rischi concreti e documentati, come il visibile e respirabile fumo passivo e non un virus che non si sa se c’è in quel preciso momento ed in quel luogo e chi ha eventualmente infettato, soprattutto in attività a rischio generico e non biologico ed ecco perché si parli di REPARTI INFETTIVI con certificazione del virus patogeno. Non ci si può basare sul pregiudizio calunnioso che siamo tutti untori a prescindere visto che la scelta del DPI appropriato deve essere effettuata dall'utente finale, ovvero dal datore di lavoro o dal responsabile della sicurezza sul posto di lavoro, dopo avere effettuato una corretta valutazione del rischio. Per l’appunto un conto è prevedere l’obbligo alla malattia (INPS) per i lavoratori visibilmente malati e non in condizione di lavorare, un altro mettere in pericolo la salute di tutti i lavoratori sani (INAIL), in assenza di qualsiasi sintomo non legittimata da un’ordinanza non conforme che, per assurdo, potrebbe proprio mettere in pericolo la loro sicurezza sul luogo di lavoro violando il D.Lgs 81/80 stesso. In base alle valutazioni appena esposte risulta chiaro che il Ministero della Salute non possa obbligare di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie né ai lavoratori, né agli utenti e né ai visitatori delle strutture sanitarie , strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali, comprese le strutture di ospitalità e lungodegenza, le residenze sanitarie assistenziali, gli hospice, le strutture riabilitative, le strutture residenziali per anziani, anche non autosufficienti, all'interno dei reparti che ospitano pazienti fragili, anziani o immunodepressi, specialmente se ad alta intensità di cura, identificati dalle direzioni sanitarie delle strutture sanitarie stesse. Quindi non può obbligare né lavoratori/dipendenti ma nemmeno cittadini come utenti/visitatori/accompagnatori neanche se fosse dichiarata un’emergenza epidemica conclamata.
Da quasi 5 anni di gestione dell’emergenza epidemica di Covid-19 che ha colpito la nostra Nazione, con azioni più o meno discutibili, ci prendiamo il diritto, come Cittadini Italiani, cioè l'elemento personale dello Stato che trova nell'ordinamento italiano la propria sovranità nell'articolo 1 della Costituzione, di esercitare il potere della contestazione dovuta ad una compressione permanente dei nostri diritti costituzionali e della propria sfera soggettiva. Quindi come cittadini consapevoli e lucidi, una parte del Corpo Elettorale, considerato vero e proprio organo dello Stato e parte attiva del Popolo, che in questo particolare momento storico non si trova rappresentato da nessun partito politico presente, né maggioranza né opposizione, siamo spinti a gestire una democrazia diretta e non più delegata. La politica riguarda tutti i soggetti facenti parte di una società, e non esclusivamente chi fa il politico di professione, ed è anche l'occuparsi in qualche modo di come venga gestito lo Stato. È utile sottolineare come, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale n. 3/2001), i Cittadini e lo Stato non siano più portatori di interessi “opposti e configgenti” ma diventino collaboratori in un clima di cooperazione ed in sinergia di azioni per il miglioramento e lo sviluppo della società. "Politica" significava l'amministrazione della "polis" per il bene di tutti, la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano. In tal senso "fa politica" anche chi, subendone effetti negativi ad opera di coloro che ne sono istituzionalmente investiti, si permette di contestare in varie forme lecite. La diffida è solo una di quelle perché l'istituto dell'autotutela rappresenta il dovere del cittadino di contestare ed il potere dell'amministrazione di annullare autonomamente o revocare parzialmente ogni atto lesivo ed illecito.
Tutto ciò premesso e considerato
DIFFIDO
Il Direttore Generale dott. Xxxxx ed il Direttore Sanitario dott. xxxx, e li invito ad interrompere qualsiasi azione perseguibile in probabile violenza privata che sia impedirmi l’accesso alle strutture sanitarie di vostra competenza oppure di violarmi il diritto di essere curato senza subire minacce. Vi chiedo inoltre, per poter procedere alla vostra valutazione di applicare l’imposizione di mascherine/tamponi, di valutare invece la normativa vigente che è molto complessa ma merita un approfondimento anche come nuova valutazione dell'interesse pubblico originario. Spetta alla pubblica amministrazione protocollare l’atto e rispondere entro i termini di 30 giorni, se non ci sono motivi oggettivi di ritardo, per non innescare omissione d’atti d’ufficio. Con l’occasione porgo i miei più distinti saluti.
Firma
Xxxxx xx
Allegati:
- documento d’identità al posto della firma digitale
DIFFIDA MASCHERINE/TAMPONE PDF
(Questo documento è di proprietà di Alessandra Ghisla - consulente con studi di diritto - che ne permette la condivisione con citazione della fonte)
Cita da IgorPM su 10 Novembre 2024, 21:01Buona sera Alessandra ed Admin,
mi permetto di suggerire di allegare a questo tipo di post anche il file in formato Word scaricabile.
Ringrazio per tutto il vostro lavoro ed assistenza.
Cordialmente, Igor
Buona sera Alessandra ed Admin,
mi permetto di suggerire di allegare a questo tipo di post anche il file in formato Word scaricabile.
Ringrazio per tutto il vostro lavoro ed assistenza.
Cordialmente, Igor
Cita da Alessandra Ghisla su 11 Novembre 2024, 11:24Cita da IgorPM su 10 Novembre 2024, 21:01Buona sera Alessandra ed Admin,
mi permetto di suggerire di allegare a questo tipo di post anche il file in formato Word scaricabile.
Ringrazio per tutto il vostro lavoro ed assistenza.
Cordialmente, Igor
Grazie, sto imparando anche io ad usarlo. Sarà fatto a breve
Cita da IgorPM su 10 Novembre 2024, 21:01Buona sera Alessandra ed Admin,
mi permetto di suggerire di allegare a questo tipo di post anche il file in formato Word scaricabile.
Ringrazio per tutto il vostro lavoro ed assistenza.
Cordialmente, Igor
Grazie, sto imparando anche io ad usarlo. Sarà fatto a breve