Non solo vaccini, ecco le promesse dell’Rna messaggero
Cita da Alessandra Ghisla su 19 Novembre 2024, 18:118 aprile 2021
Il punto di svolta si ebbe probabilmente quel 2 agosto del 2005, quando Katalin Karikó e Drew Weissman, al tempo entrambi ricercatori presso l’University of Pennsylvania School of Medicine (presso il dipartimento di neurochirurgia la prima e di medicina il secondo), pubblicarono un lavoro su Immunity (Suppression of RNA Recognition by Toll-like Receptors: The Impact of Nucleoside Modification and the Evolutionary Origin of RNA), nel quale per la prima volta descrivevano un sistema per rendere l’Rna messaggero (mRna) artificiale invisibile al sistema immunitario. I due scienziati si resero subito conto della portata della loro scoperta che avrebbe potuto essere utilizzata per lo sviluppo di nuove terapie e vaccini. Così oltre a pubblicare l’articolo, depositarono un brevetto e fondarono una società, anche se lì per lì il lavoro non riscosse l’interesse sperato. Sarebbero dovuti passare altri quindici anni prima che tornassero utili tutte le ricerche svolte dai primi anni 2000: ad esempio per sviluppare a tempo di record un vaccino contro il virus che sta sconvolgendo il mondo. Ma non solo.
L’Rna può funzionare
Per capire la portata della vicenda è necessario fare qualche passo indietro. Nel 1990 Philip Felgner e alcuni colleghi dell’Università del Wisconsin, pubblicarono su Science un lavoro (Direct gene transfer into mouse muscle in vivo) in cui provarono a iniettare una molecola di Dna e Rna artificiale nel muscolo di topi, per indurre l’espressione di determinate proteine terapeutiche. Erano gli anni in cui si iniziava a parlare di terapia genica e della possibilità di curare alcune malattie ereditarie, proprio sopperendo alla carenza o al deficit di alcune proteine chiave. L’esperimento per certi versi andò anche a buon fine, perché i topi riuscirono davvero a produrre la proteina desiderata. Ma la procedura non era priva di effetti collaterali gravi: l’iniezione dei nucleotidi estranei, infatti, riconosciuti come patogeni dall’organismo, provocava una forte risposta immunitaria che poteva anche portare, in alcuni casi, al decesso degli animali. Seppure promettente la tecnologia non poteva ancora essere utilizzata sugli esseri umani.
La collaborazione Karikò Weissman
Più o meno negli stessi anni (era il 1985) Katalin Karikó lascia l’Ungheria, sua terra di origine con la famiglia, per spostarsi negli Stati Uniti. Viene assunta prima dalla Temple University poi dall’Università della Pennsylvania, dove nel 1998 inizia a collaborare con Drew Weissman, immunologo formatosi nel laboratorio di Anthony Fauci, presso i National institutes of health (Nih). Il sogno di Weissman è sviluppare un vaccino contro l’Hiv, ma dopo diversi insuccessi con il Dna, decide di provare con l’Rna, con l’aiuto della collega, già da tempo impegnata in quell’area di ricerca. Anni prima l’obiettivo di Karikó era stato curare la fibrosi cistica con l’Rna, meno rischioso del Dna dal suo punto di vista, che poteva portare all’introduzione di modifiche nocive. Ma al tempo il campo dell’Rna non era ancora così attraente e Karikó per continuare a lavorarci fu costretta a subire un declassamento di carriera. Quando si incontrarono sul finire degli anni ’90, lo status accademico di Karikó all’UPenn era modesto, mentre Weissman aveva i fondi per finanziare i suoi esperimenti. Fu così che iniziò la collaborazione.
Superare gli ostacoli
I due ricercatori iniziarono a modificare la struttura dell’Rna con aggiunte di gruppi chimici, cambiamenti delle basi, degli zuccheri, delle strutture ecc. Finché riuscirono a isolare due variazioni realmente efficaci, in grado di rendere l’Rna invulnerabile all’attacco del sistema immunitario. In particolare i due ricercatori notarono che a dare avvio alla forte risposta immunitaria era l’uridina. Così provarono a sostituirla con un analogo dall’aspetto simile ma inerte dal punto di vista della risposta immunitaria. Il primo ostacolo era stato superato e la nuova forma di mRNA specificamente modificata, iniziava a assumere l’aspetto di uno strumento in grado di far produrre alle cellule umane le proteine terapeutiche. Il lavoro di Karikò e Weissman proseguì e nel 2011 purificarono ulteriormente il proprio mRna per evitare qualsiasi reazione immunitaria incontrollata. L’anno seguente testarono la molecola in un esperimento su topi e scimmie a cui riuscirono a far produrre l’ormone Epo, per curarli dall’anemia. Senza effetti collaterali. Restava però un altro problema: far arrivare l’mRna a destinazione senza che venisse degradato. Dopo diversi tentativi la coppia di scienziati sviluppò un sistema di nanoparticelle lipidiche che consentiva loro di bypassare anche questo limite. Nel 2015 pubblicarono il lavoro e l’mRna sembrava pronto per essere utilizzato in clinica.
I primi studi e prime biotech
La molecola era promettente e iniziò ad attirare l’attenzione di alcune biotech – oggi ben note perché proprietarie dei primi vaccini anti-Covid-19 – che la volevano utilizzare per curare alcune malattie, principalmente il cancro, ma anche l’Hiv, altre infezioni ancora senza vaccino e malattie rare del sangue come l’anemia falciforme. Il primo test clinico sull’mRna fu probabilmente quello di Curevac – azienda tedesca fondata a Tubinga nel 2000 dal tedesco Ingmar Hoerr e dal francese Steve Pascolo – che tra il 2003 e il 2006 testò la molecola come vaccino antitumorale. Il lavoro pioneristico non fu preso in considerazione da riviste a impact factor maggiore, come Nature e Science e fu pubblicato nel 2008 su Journal of Immunotherapy (Results of the first phase I/II clinical vaccination trial with direct injection of mRNA). L’Rna messaggero fu testato su quindici pazienti affetti da melanoma, per codificare antigeni tumorali e indurre una risposta immunitaria contro il tumore. Dal trial emerse che il farmaco era ben tollerato, ma nessuna informazione sull’efficacia clinica che savrebbe dovuto essere dimostrata con studi più ampi.
Sempre in quegli anni – era il 2008 – la coppia di medici turchi Ugur Sahin e Ozlem Tureci, fondano a Magonza, in Germania la ormai ben nota Biontech. Il suo approccio era semplice: cercare, testare e ottimizzare qualsiasi terapia antitumorale, prendendo gli elementi migliori in ogni area di ricerca. L’mRna era uno di quelli e nel 2013 invitano a salire a bordo anche Karikò che diventò vicepresidente della società. Qualche anno dopo, nel 2010, Derrick Rossi, allora ricercatore post-doc presso la Stanford University, incuriosito dal lavoro di Karikó e Weissman co-fondò l’altra ormai famosa società biotech, Moderna, con sede nel Massachusetts, con un gruppo di professori di Harvard e del Massachusetts Institute of Technology (Mit), con l’obiettivo di utilizzare l’mRNA modificato per creare vaccini e terapie. L’intenzione comune era sviluppare nuove immunoterapie contro il cancro, malattie cardiovascolari e metaboliche. Ma anche nuovi e più efficaci vaccini.
Tempismo perfetto
Così Moderna iniziò a collaborare con le più importanti istituzioni statunitensi nel campo delle malattie infettive: dal Barda e il Darpa, fino alla Fondazione Gates e gli Nih (oltre che stringere accordi con aziende farmaceutiche di rilievo come MSD e AstraZeneca per sviluppare terapie basate sull’mRna). Proprio con gli Nih iniziò un progetto per sviluppare un vaccino sperimentale contro il virus respiratorio sinciziale e a seguire nel 2016 uno contro Zika. Seguiti l’anno seguente da un piano di preparazione alle pandemie virali legate alle malattie emergenti, tra cui i nipahvirus e i coronavirus. Già allora, ben prima che scoppiasse la pandemia di Covid-19, Stephane Bacel, Ceo di Moderna, sapeva che con questa nuova tecnologia avrebbe impiegato solo 60 giorni per mettere a punto un vaccino e cominciare un test clinico, come si è poi realmente verificato.
Non andò molto diversamente in casa Biontech, dove nel 2018 era nata una partnership con Pfizer per sviluppare vaccini a mRNA per l’influenza. Il primo test clinico era in programma proprio per il 2020. A quel punto quando il Sars-Cov-2 ha fatto la sua comparsa, tutto era già pronto per partire rapidamente con lo sviluppo di un vaccino. Così come vi erano già le basi per la collaborazione con Pfizer. Il resto, per quanto riguarda i vaccini anti Covid-19, è storia nota.
Non solo covid-19
Ma, oltre al vaccino contro Sars- CoV-2, altri, sempre a base di mRNA stanno avanzando verso gli studi clinici. Il settore dell’immunoterapia è infatti quello più promettente perché la vaccinazione porta a un effetto sistemico e l’mRna non necessita di essere trasportato in un organo in particolare. Inoltre i vaccini richiedono solo una o poche dosi e non somministrazioni ripetute perché una volta che il sistema immunitario è stato addestrato, la proteina prodotta dall’mRNA si degrada e non ha bisogno di essere reintegrata. Al momento sono noti i primi dati sui candidati vaccini contro la rabbia (Curevac) e l’influenza pandemica (Moderna) che si sono dimostrati sicuri e hanno indotto risposte anticorpali protettive in volontari sani, come riporta un articolo pubblicato su Nature (Unlocking the potential of vaccines built on messenger RNA). In entrambi i casi, tuttavia, gli effetti antivirali sono diminuiti dopo meno di un anno, suggerendo che sono necessari miglioramenti per fornire un’immunità più robusta e duratura.
Mentre un altro vaccino contro il citomegalovirus (Cmv) sviluppato ancora da Moderna (necessario per impedire alle donne incinte di trasmettere il virus ai loro feti in via di sviluppo) ha provocando risposte anticorpali protettive in topi e scimmie immunizzati e nel 2019 è stato testato anche in una sperimentazione clinica di fase I, dove ha dimostrato di aumentare i livelli di anticorpi in modo dose-dipendente. Oggi non esiste ancora un vaccino contro il Cmv perché si tratta di un virus complesso, che utilizza cinque proteine per entrare nelle cellule umane e non è facile sviluppare una risposta anticorpale contro ognuna di esse. La tecnologia a mRna ha però permesso di produrre un vaccino multisequanza in grado di stimolare il sistema immunitario. Altri vaccini nella pipeline di Moderna con promettenti dati clinici iniziali includono il già citato prodotto per il virus respiratorio sinciziale e un doppio vaccino contro altri due virus respiratori recalcitranti, metapneumovirus e un tipo di parainfluenza, che sono anche responsabili di gravi infezioni polmonari.
L’immunoterapia
I vaccini però, come già ricordato, possono anche essere utilizzati come immunoterapia per attivare il sistema immunitario contro le cellule tumorali. Al momento sono in corso più di una dozzina di studi clinici per tali terapie in oncologia, area in cui, ancora una volta, sono particolarmente attive Biontech e Moderna. La biotech tedesca sta testando un vaccino contro il melanoma in stadio avanzato (BNT122 o RO7198457) che nel 2017 ha portato a una riduzione del rischio di sviluppare nuove lesioni metastatiche (Personalized RNA mutanome vaccines mobilize poly-specific therapeutic immunity against cancer) e nel 2019 aveva contribuito a ridurre o stabilizzare il melanoma in 19 dei 42 partecipanti alla sperimentazione iniziale. Nelle seguenti indagini di follow-up del primo studio clinico, tutte le persone che avevano precedentemente risposto favorevolmente erano ancora libere da ricadute fino a 41 mesi dopo il trattamento, senza aggiungere un inibitore del checkpoint, come riporta ancora Nature. Risultati promettenti, anche se lo scorso ottobre i dati di una sperimentazione di fase 1b portata avanti da Roche e BioNTech hanno evidenziato un tasso di risposta “basso” del vaccino in combinazione con Tecentriq (un inibitore del checkpoint immunitario della società svizzera), con soli nove dei 108 pazienti con tumore solido valutabili che avevano risposto alla terapia. Il vaccino però era riuscito a generare risposte immunitarie specifiche del tumore nella maggior parte dei pazienti valutabili e questo è sembrato bastare agli sperimentatori per proseguire.
Un altro candidato vaccino sempre a base di mRna contro il melanoma rientra nella pipeline di Moderna (mRNA-4157) e ha anch’esso mostrato segni preliminari di attività antitumorale. Durante il congresso annuale dell’American Society of Clinical On cology del 2019 la biotech statunitense aveva riportato i primi dati clinici sugli esseri umani, mostrando che il vaccino personalizzato può generare risposte immunitarie e se somministrato con un inibitore del checkpoint (Keytruda di MSD) la terapia ha anche portato a una riduzione dei tumori in 6 partecipanti con malattia metastatica su 20. Moderna e Msd hanno anche lanciato uno studio di fase I. Alcuni dati ad interm sono stati presentati al Congresso annuale della Society for Immunotherapy of Cancer del 2020 e hanno mostrato che l’mRNA-4157 in combinazione con Keytruda è ben tollerato e ha prodotto risposte misurate dalla riduzione del tumore nei pazienti con carcinoma a cellule squamose della testa e del collo Hpv negativi
Non solo vaccini
Ma non solo. Anche se attraverso una via più complessa l’mRNA potrebbe essere utilizzato anche come terapia. Per esempio producendo proteine che stimolano la crescita dei vasi sanguigni, utili per riparare un cuore danneggiato. Una delle prime via intraprese da Karikò, oggi al vaglio di AstraZeneca che sta provando a sviluppare una terapia mRna per l’infarto. O ancora codificando l’enzima mancante in una malattia genetica rara. In questi casi però il problema è come trasportare l’mRna a destinazione, dove deve fornire benefici forti e duraturi senza effetti collaterali eccessivi. Il che significa modificare le strutture sia dell’mRNA sia delle nanoparticelle lipidiche. Pochi di questi prodotti sono arrivati agli studi clinici. Tra questi l’mRna sviluppato da, Translate Bio per la fibrosi cistica. Una singola dose della terapia non ha rivelato effetti collaterali gravi e attualmente una sperimentazione in corso sta testando dosi multiple come riporta un articolo su Science (Messenger RNA gave us a COVID-19 vaccine. Will it treat diseases, too?).
Altri mRna, come quello ideato per curare la carenza di ornitina transcarbamilasi (OTC) – malattia in cui un enzima mancante provoca un accumulo di ammoniaca nel sangue che può portare a convulsioni, coma e morte – deve riuscire ad arrivare fino al fegato. La società di farmaci mRNA Arcturus Therapeutics, che mira a trattare la malattia rara è riuscita a massimizzare la quantità del farmaco da portare a destinazione, in parte regolando le dimensioni e la carica elettrica delle nanoparticelle lipidiche. Arcturus ha completato uno studio iniziale di sicurezza su circa 30 volontari sani e ha trattato il primo dei 12 partecipanti arruolati nello studio, affetti dalla malattia. La scelta della patologia non è stata casuale però: il fegato infatti è l’organo più facile da raggiungere, perché accumula naturalmente le particelle che circolano nel flusso sanguigno. Altri tessuti sono ancora più difficili da raggiungere con l’mRNA, ma i gruppi di ricerca che stanno lavorando sul campo per modificare la struttura delle nanoparticelle lipidiche per indirizzarle a un determinato organo o tipo di cellula sono diversi.
Un’altra opzione è quella di associare l’mRna alla tecnica di editing genetico Crispr-Cas9. L’mRNA può essere programmato per codificare proteine come l’enzima Cas9, che può tagliare il genoma per apportare modifiche permanenti curative. La società di editing Intellia Therapeutics per esempio, sta portando avanti una di queste terapie a base di mRNA per l’amiloidosi ereditaria da transtiretina, in grado di eliminare il gene responsabile del deficit. L’azienda ha trattato il suo primo partecipante alla sperimentazione clinica lo scorso dicembre.
BioNTech infine detiene anche i diritti di brevetto per una piattaforma di vaccinazione con mRNA progettata per proteggere da allergeni come polline e acari della polvere domestica. Il team di Richard Weiss, immunologo dell’Università di Salisburgo, in Austria, che ha contribuito a sviluppare la tecnologia ha dimostrato che l’immunizzazione basata su mRNA può proteggere completamente i topi dallo sviluppo di allergie contro l’erba timoteo, una causa comune di febbre da fieno.
Una scoperta da Nobel?
Le applicazioni insomma potrebbero essere infinte e l’Rna rivelarsi davvero una terapia rivoluzionaria. Nel 2006 gli americani Andrew Fire e Craig Mello sono stati insigniti del premio Nobel per la medicina per la scoperta del fenomeno dell’interferenza dell’Rna (Rnai), il silenziamento genico mediante Rna a doppio filamento, che negli anni a seguire a portato al primi farmaci basati sull’Rnai (tutti firmati Alnylam, patisiran per la polineuropatia nei pazienti con amiloidosi ereditaria da transtiretina; givosiran per la porfiria epatica acuta; lumasiran, per l’iperossaluria primitiva di tipo 1 (PH1). Lo scorso ottobre invece Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna sono state premiate con il Nobel per la chimica, per aver scoperto la tecnica di editing genetico Crispr, che sfrutta ancora una volta l’Rna e sta aprendo le porte per la cura di diverse malattie, dall’anemia falciforme e l’emofilia, fino alla malaria e a diverse malattie infettive. Non ci sarebbe da stupirsi quindi se nei prossimi anni anche Karikó e Weissman fossero insigniti del prestigioso riconoscimento, grazie alla famosa scoperta del 2005 che ha permesso, in definitiva, di utilizzare l’mRna sugli esseri umani, per la prima volta proprio durante una delle più terribili pandemie con cui abbiamo avuto a che fare.
Fonte: QUI
8 aprile 2021
Il punto di svolta si ebbe probabilmente quel 2 agosto del 2005, quando Katalin Karikó e Drew Weissman, al tempo entrambi ricercatori presso l’University of Pennsylvania School of Medicine (presso il dipartimento di neurochirurgia la prima e di medicina il secondo), pubblicarono un lavoro su Immunity (Suppression of RNA Recognition by Toll-like Receptors: The Impact of Nucleoside Modification and the Evolutionary Origin of RNA), nel quale per la prima volta descrivevano un sistema per rendere l’Rna messaggero (mRna) artificiale invisibile al sistema immunitario. I due scienziati si resero subito conto della portata della loro scoperta che avrebbe potuto essere utilizzata per lo sviluppo di nuove terapie e vaccini. Così oltre a pubblicare l’articolo, depositarono un brevetto e fondarono una società, anche se lì per lì il lavoro non riscosse l’interesse sperato. Sarebbero dovuti passare altri quindici anni prima che tornassero utili tutte le ricerche svolte dai primi anni 2000: ad esempio per sviluppare a tempo di record un vaccino contro il virus che sta sconvolgendo il mondo. Ma non solo.
L’Rna può funzionare
Per capire la portata della vicenda è necessario fare qualche passo indietro. Nel 1990 Philip Felgner e alcuni colleghi dell’Università del Wisconsin, pubblicarono su Science un lavoro (Direct gene transfer into mouse muscle in vivo) in cui provarono a iniettare una molecola di Dna e Rna artificiale nel muscolo di topi, per indurre l’espressione di determinate proteine terapeutiche. Erano gli anni in cui si iniziava a parlare di terapia genica e della possibilità di curare alcune malattie ereditarie, proprio sopperendo alla carenza o al deficit di alcune proteine chiave. L’esperimento per certi versi andò anche a buon fine, perché i topi riuscirono davvero a produrre la proteina desiderata. Ma la procedura non era priva di effetti collaterali gravi: l’iniezione dei nucleotidi estranei, infatti, riconosciuti come patogeni dall’organismo, provocava una forte risposta immunitaria che poteva anche portare, in alcuni casi, al decesso degli animali. Seppure promettente la tecnologia non poteva ancora essere utilizzata sugli esseri umani.
La collaborazione Karikò Weissman
Più o meno negli stessi anni (era il 1985) Katalin Karikó lascia l’Ungheria, sua terra di origine con la famiglia, per spostarsi negli Stati Uniti. Viene assunta prima dalla Temple University poi dall’Università della Pennsylvania, dove nel 1998 inizia a collaborare con Drew Weissman, immunologo formatosi nel laboratorio di Anthony Fauci, presso i National institutes of health (Nih). Il sogno di Weissman è sviluppare un vaccino contro l’Hiv, ma dopo diversi insuccessi con il Dna, decide di provare con l’Rna, con l’aiuto della collega, già da tempo impegnata in quell’area di ricerca. Anni prima l’obiettivo di Karikó era stato curare la fibrosi cistica con l’Rna, meno rischioso del Dna dal suo punto di vista, che poteva portare all’introduzione di modifiche nocive. Ma al tempo il campo dell’Rna non era ancora così attraente e Karikó per continuare a lavorarci fu costretta a subire un declassamento di carriera. Quando si incontrarono sul finire degli anni ’90, lo status accademico di Karikó all’UPenn era modesto, mentre Weissman aveva i fondi per finanziare i suoi esperimenti. Fu così che iniziò la collaborazione.
Superare gli ostacoli
I due ricercatori iniziarono a modificare la struttura dell’Rna con aggiunte di gruppi chimici, cambiamenti delle basi, degli zuccheri, delle strutture ecc. Finché riuscirono a isolare due variazioni realmente efficaci, in grado di rendere l’Rna invulnerabile all’attacco del sistema immunitario. In particolare i due ricercatori notarono che a dare avvio alla forte risposta immunitaria era l’uridina. Così provarono a sostituirla con un analogo dall’aspetto simile ma inerte dal punto di vista della risposta immunitaria. Il primo ostacolo era stato superato e la nuova forma di mRNA specificamente modificata, iniziava a assumere l’aspetto di uno strumento in grado di far produrre alle cellule umane le proteine terapeutiche. Il lavoro di Karikò e Weissman proseguì e nel 2011 purificarono ulteriormente il proprio mRna per evitare qualsiasi reazione immunitaria incontrollata. L’anno seguente testarono la molecola in un esperimento su topi e scimmie a cui riuscirono a far produrre l’ormone Epo, per curarli dall’anemia. Senza effetti collaterali. Restava però un altro problema: far arrivare l’mRna a destinazione senza che venisse degradato. Dopo diversi tentativi la coppia di scienziati sviluppò un sistema di nanoparticelle lipidiche che consentiva loro di bypassare anche questo limite. Nel 2015 pubblicarono il lavoro e l’mRna sembrava pronto per essere utilizzato in clinica.
I primi studi e prime biotech
La molecola era promettente e iniziò ad attirare l’attenzione di alcune biotech – oggi ben note perché proprietarie dei primi vaccini anti-Covid-19 – che la volevano utilizzare per curare alcune malattie, principalmente il cancro, ma anche l’Hiv, altre infezioni ancora senza vaccino e malattie rare del sangue come l’anemia falciforme. Il primo test clinico sull’mRna fu probabilmente quello di Curevac – azienda tedesca fondata a Tubinga nel 2000 dal tedesco Ingmar Hoerr e dal francese Steve Pascolo – che tra il 2003 e il 2006 testò la molecola come vaccino antitumorale. Il lavoro pioneristico non fu preso in considerazione da riviste a impact factor maggiore, come Nature e Science e fu pubblicato nel 2008 su Journal of Immunotherapy (Results of the first phase I/II clinical vaccination trial with direct injection of mRNA). L’Rna messaggero fu testato su quindici pazienti affetti da melanoma, per codificare antigeni tumorali e indurre una risposta immunitaria contro il tumore. Dal trial emerse che il farmaco era ben tollerato, ma nessuna informazione sull’efficacia clinica che savrebbe dovuto essere dimostrata con studi più ampi.
Sempre in quegli anni – era il 2008 – la coppia di medici turchi Ugur Sahin e Ozlem Tureci, fondano a Magonza, in Germania la ormai ben nota Biontech. Il suo approccio era semplice: cercare, testare e ottimizzare qualsiasi terapia antitumorale, prendendo gli elementi migliori in ogni area di ricerca. L’mRna era uno di quelli e nel 2013 invitano a salire a bordo anche Karikò che diventò vicepresidente della società. Qualche anno dopo, nel 2010, Derrick Rossi, allora ricercatore post-doc presso la Stanford University, incuriosito dal lavoro di Karikó e Weissman co-fondò l’altra ormai famosa società biotech, Moderna, con sede nel Massachusetts, con un gruppo di professori di Harvard e del Massachusetts Institute of Technology (Mit), con l’obiettivo di utilizzare l’mRNA modificato per creare vaccini e terapie. L’intenzione comune era sviluppare nuove immunoterapie contro il cancro, malattie cardiovascolari e metaboliche. Ma anche nuovi e più efficaci vaccini.
Tempismo perfetto
Così Moderna iniziò a collaborare con le più importanti istituzioni statunitensi nel campo delle malattie infettive: dal Barda e il Darpa, fino alla Fondazione Gates e gli Nih (oltre che stringere accordi con aziende farmaceutiche di rilievo come MSD e AstraZeneca per sviluppare terapie basate sull’mRna). Proprio con gli Nih iniziò un progetto per sviluppare un vaccino sperimentale contro il virus respiratorio sinciziale e a seguire nel 2016 uno contro Zika. Seguiti l’anno seguente da un piano di preparazione alle pandemie virali legate alle malattie emergenti, tra cui i nipahvirus e i coronavirus. Già allora, ben prima che scoppiasse la pandemia di Covid-19, Stephane Bacel, Ceo di Moderna, sapeva che con questa nuova tecnologia avrebbe impiegato solo 60 giorni per mettere a punto un vaccino e cominciare un test clinico, come si è poi realmente verificato.
Non andò molto diversamente in casa Biontech, dove nel 2018 era nata una partnership con Pfizer per sviluppare vaccini a mRNA per l’influenza. Il primo test clinico era in programma proprio per il 2020. A quel punto quando il Sars-Cov-2 ha fatto la sua comparsa, tutto era già pronto per partire rapidamente con lo sviluppo di un vaccino. Così come vi erano già le basi per la collaborazione con Pfizer. Il resto, per quanto riguarda i vaccini anti Covid-19, è storia nota.
Non solo covid-19
Ma, oltre al vaccino contro Sars- CoV-2, altri, sempre a base di mRNA stanno avanzando verso gli studi clinici. Il settore dell’immunoterapia è infatti quello più promettente perché la vaccinazione porta a un effetto sistemico e l’mRna non necessita di essere trasportato in un organo in particolare. Inoltre i vaccini richiedono solo una o poche dosi e non somministrazioni ripetute perché una volta che il sistema immunitario è stato addestrato, la proteina prodotta dall’mRNA si degrada e non ha bisogno di essere reintegrata. Al momento sono noti i primi dati sui candidati vaccini contro la rabbia (Curevac) e l’influenza pandemica (Moderna) che si sono dimostrati sicuri e hanno indotto risposte anticorpali protettive in volontari sani, come riporta un articolo pubblicato su Nature (Unlocking the potential of vaccines built on messenger RNA). In entrambi i casi, tuttavia, gli effetti antivirali sono diminuiti dopo meno di un anno, suggerendo che sono necessari miglioramenti per fornire un’immunità più robusta e duratura.
Mentre un altro vaccino contro il citomegalovirus (Cmv) sviluppato ancora da Moderna (necessario per impedire alle donne incinte di trasmettere il virus ai loro feti in via di sviluppo) ha provocando risposte anticorpali protettive in topi e scimmie immunizzati e nel 2019 è stato testato anche in una sperimentazione clinica di fase I, dove ha dimostrato di aumentare i livelli di anticorpi in modo dose-dipendente. Oggi non esiste ancora un vaccino contro il Cmv perché si tratta di un virus complesso, che utilizza cinque proteine per entrare nelle cellule umane e non è facile sviluppare una risposta anticorpale contro ognuna di esse. La tecnologia a mRna ha però permesso di produrre un vaccino multisequanza in grado di stimolare il sistema immunitario. Altri vaccini nella pipeline di Moderna con promettenti dati clinici iniziali includono il già citato prodotto per il virus respiratorio sinciziale e un doppio vaccino contro altri due virus respiratori recalcitranti, metapneumovirus e un tipo di parainfluenza, che sono anche responsabili di gravi infezioni polmonari.
L’immunoterapia
I vaccini però, come già ricordato, possono anche essere utilizzati come immunoterapia per attivare il sistema immunitario contro le cellule tumorali. Al momento sono in corso più di una dozzina di studi clinici per tali terapie in oncologia, area in cui, ancora una volta, sono particolarmente attive Biontech e Moderna. La biotech tedesca sta testando un vaccino contro il melanoma in stadio avanzato (BNT122 o RO7198457) che nel 2017 ha portato a una riduzione del rischio di sviluppare nuove lesioni metastatiche (Personalized RNA mutanome vaccines mobilize poly-specific therapeutic immunity against cancer) e nel 2019 aveva contribuito a ridurre o stabilizzare il melanoma in 19 dei 42 partecipanti alla sperimentazione iniziale. Nelle seguenti indagini di follow-up del primo studio clinico, tutte le persone che avevano precedentemente risposto favorevolmente erano ancora libere da ricadute fino a 41 mesi dopo il trattamento, senza aggiungere un inibitore del checkpoint, come riporta ancora Nature. Risultati promettenti, anche se lo scorso ottobre i dati di una sperimentazione di fase 1b portata avanti da Roche e BioNTech hanno evidenziato un tasso di risposta “basso” del vaccino in combinazione con Tecentriq (un inibitore del checkpoint immunitario della società svizzera), con soli nove dei 108 pazienti con tumore solido valutabili che avevano risposto alla terapia. Il vaccino però era riuscito a generare risposte immunitarie specifiche del tumore nella maggior parte dei pazienti valutabili e questo è sembrato bastare agli sperimentatori per proseguire.
Un altro candidato vaccino sempre a base di mRna contro il melanoma rientra nella pipeline di Moderna (mRNA-4157) e ha anch’esso mostrato segni preliminari di attività antitumorale. Durante il congresso annuale dell’American Society of Clinical On cology del 2019 la biotech statunitense aveva riportato i primi dati clinici sugli esseri umani, mostrando che il vaccino personalizzato può generare risposte immunitarie e se somministrato con un inibitore del checkpoint (Keytruda di MSD) la terapia ha anche portato a una riduzione dei tumori in 6 partecipanti con malattia metastatica su 20. Moderna e Msd hanno anche lanciato uno studio di fase I. Alcuni dati ad interm sono stati presentati al Congresso annuale della Society for Immunotherapy of Cancer del 2020 e hanno mostrato che l’mRNA-4157 in combinazione con Keytruda è ben tollerato e ha prodotto risposte misurate dalla riduzione del tumore nei pazienti con carcinoma a cellule squamose della testa e del collo Hpv negativi
Non solo vaccini
Ma non solo. Anche se attraverso una via più complessa l’mRNA potrebbe essere utilizzato anche come terapia. Per esempio producendo proteine che stimolano la crescita dei vasi sanguigni, utili per riparare un cuore danneggiato. Una delle prime via intraprese da Karikò, oggi al vaglio di AstraZeneca che sta provando a sviluppare una terapia mRna per l’infarto. O ancora codificando l’enzima mancante in una malattia genetica rara. In questi casi però il problema è come trasportare l’mRna a destinazione, dove deve fornire benefici forti e duraturi senza effetti collaterali eccessivi. Il che significa modificare le strutture sia dell’mRNA sia delle nanoparticelle lipidiche. Pochi di questi prodotti sono arrivati agli studi clinici. Tra questi l’mRna sviluppato da, Translate Bio per la fibrosi cistica. Una singola dose della terapia non ha rivelato effetti collaterali gravi e attualmente una sperimentazione in corso sta testando dosi multiple come riporta un articolo su Science (Messenger RNA gave us a COVID-19 vaccine. Will it treat diseases, too?).
Altri mRna, come quello ideato per curare la carenza di ornitina transcarbamilasi (OTC) – malattia in cui un enzima mancante provoca un accumulo di ammoniaca nel sangue che può portare a convulsioni, coma e morte – deve riuscire ad arrivare fino al fegato. La società di farmaci mRNA Arcturus Therapeutics, che mira a trattare la malattia rara è riuscita a massimizzare la quantità del farmaco da portare a destinazione, in parte regolando le dimensioni e la carica elettrica delle nanoparticelle lipidiche. Arcturus ha completato uno studio iniziale di sicurezza su circa 30 volontari sani e ha trattato il primo dei 12 partecipanti arruolati nello studio, affetti dalla malattia. La scelta della patologia non è stata casuale però: il fegato infatti è l’organo più facile da raggiungere, perché accumula naturalmente le particelle che circolano nel flusso sanguigno. Altri tessuti sono ancora più difficili da raggiungere con l’mRNA, ma i gruppi di ricerca che stanno lavorando sul campo per modificare la struttura delle nanoparticelle lipidiche per indirizzarle a un determinato organo o tipo di cellula sono diversi.
Un’altra opzione è quella di associare l’mRna alla tecnica di editing genetico Crispr-Cas9. L’mRNA può essere programmato per codificare proteine come l’enzima Cas9, che può tagliare il genoma per apportare modifiche permanenti curative. La società di editing Intellia Therapeutics per esempio, sta portando avanti una di queste terapie a base di mRNA per l’amiloidosi ereditaria da transtiretina, in grado di eliminare il gene responsabile del deficit. L’azienda ha trattato il suo primo partecipante alla sperimentazione clinica lo scorso dicembre.
BioNTech infine detiene anche i diritti di brevetto per una piattaforma di vaccinazione con mRNA progettata per proteggere da allergeni come polline e acari della polvere domestica. Il team di Richard Weiss, immunologo dell’Università di Salisburgo, in Austria, che ha contribuito a sviluppare la tecnologia ha dimostrato che l’immunizzazione basata su mRNA può proteggere completamente i topi dallo sviluppo di allergie contro l’erba timoteo, una causa comune di febbre da fieno.
Una scoperta da Nobel?
Le applicazioni insomma potrebbero essere infinte e l’Rna rivelarsi davvero una terapia rivoluzionaria. Nel 2006 gli americani Andrew Fire e Craig Mello sono stati insigniti del premio Nobel per la medicina per la scoperta del fenomeno dell’interferenza dell’Rna (Rnai), il silenziamento genico mediante Rna a doppio filamento, che negli anni a seguire a portato al primi farmaci basati sull’Rnai (tutti firmati Alnylam, patisiran per la polineuropatia nei pazienti con amiloidosi ereditaria da transtiretina; givosiran per la porfiria epatica acuta; lumasiran, per l’iperossaluria primitiva di tipo 1 (PH1). Lo scorso ottobre invece Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna sono state premiate con il Nobel per la chimica, per aver scoperto la tecnica di editing genetico Crispr, che sfrutta ancora una volta l’Rna e sta aprendo le porte per la cura di diverse malattie, dall’anemia falciforme e l’emofilia, fino alla malaria e a diverse malattie infettive. Non ci sarebbe da stupirsi quindi se nei prossimi anni anche Karikó e Weissman fossero insigniti del prestigioso riconoscimento, grazie alla famosa scoperta del 2005 che ha permesso, in definitiva, di utilizzare l’mRna sugli esseri umani, per la prima volta proprio durante una delle più terribili pandemie con cui abbiamo avuto a che fare.
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